Lo Stato di diritto in Cina resta più slogan che realtà. Le leggi ci sono, ma lasciano ampi margini interpretativi e devono fare i conti con l’arbitrio di chi le applica. Il caso di Chen Guangcheng è un esempio lampante in proposito. E una minoranza di cittadini sta cominciando a perdere la pazienza. Mentre la vicenda dell’attivista per i diritti umani Chen Guangcheng si trascina e fa da sfondo al “Dialogo politico strategico” tra Cina e Usa – le ultime notizie parlano di un Chen “più tranquillo” che avrebbe accettato di restare in Cina, rinunciando all’asilo politico negli Stato uniti – si pone il problema dello “Stato di diritto” cinese.
Di fronte all’ospedale di Chaoyang, dove l’attivista si trova tutt’ora, un uomo ha dichiarato ad AgiChina24: “[Chen] è un uomo che lotta per l’applicazione delle leggi cinesi, non per sovvertirle. In Cina le leggi esistono, ma non vengono applicate”.
I termini della questione sono così riassumibili: da tempo, la Cina insiste sul fatto di essere uno “Stato di diritto”. Storicamente, sarebbe questo l’approdo finale di un percorso lungo e tortuoso.
Il diritto cinese, da sempre, ha lasciato un margine interpretativo molto ampio ai funzionari preposti ad applicare la legge.
Tradizionalmente non esisteva un diritto soggettivo – cioè che tutelasse l’individuo – bensì un potere assoluto che, per mantenere l’ordine, poteva dimostrarsi di volta in volta spietato o benevolente: ma l’habeas corpus non c’era e non esistevano veri e propri diritti codificati a cui appellarsi individualmente.
Con l’apertura e le riforme, a partire dagli anni Ottanta, Pechino ha scelto il diritto come codice per comunicare con l’Occidente: un linguaggio in comune. Possiamo dire che l’economia ha trainato la legge.
I funzionari non mancano mai di appellarsi alle “leggi cinesi” – che possono anche essere dure, ma comunque sono scritte nero su bianco – ricordando subito dopo che la Cina ha una sua cultura e tradizione, che va rispettata al pari di quelle occidentali.
Il problema però è che le stesse leggi scritte mantengono un forte margine di discrezionalità (arbitrio) per i funzionari che le devono applicare: clausole come “e in tutti i casi in cui lo si ritiene necessario, si prevede un’autorizzazione da parte degli organi amministrativi” non sono inconsuete.
Chen Guangcheng sembra aver fatto esplodere questa contraddizione almeno tre volte.
La prima, quando da avvocato “fai da te”, e proprio a termini di legge, aveva denunciato le sterilizzazioni forzate che sarebbero state compiute in gran numero dai funzionari di Liyi, in Shandong.
La seconda, quando da attivista perseguitato era stato relegato ad arresti domiciliari da più parti ritenuti illegali (un’indiretta conferma di questo abuso è giunta dagli stessi funzionari cinesi di Pechino, quando hanno affermato che Chen, in quanto “cittadino libero”, non ha compiuto nessun reato nello spostarsi da Dongshigu a Pechino).
La terza, quando da uomo in fuga, si è rifugiato nell’ambasciata Usa: è mai possibile che un cittadino cinese, per trovare tutela, debba rifugiarsi nella rappresentanza diplomatica di un paese straniero?
La Cina ha chiesto formalmente le scuse statunitensi per avere accolto Chen in ambasciata. Ecco cosa scrive un anonimo microblogger a tal proposito: “Un cittadino cinese non riesce a trovare protezione nella sua patria ed è costretto a fuggire in un’ambasciata di un altro paese, chi dovrebbe vergognarsi? Chi deve chiedere scusa per la persecuzione ripetuta e le offese? Non si sentono imbarazzati a sostenere che la Cina è ‘un Paese governato dalla legge?’”
Se quindi la patata bollente politica è adesso nelle mani non solo di Pechino, ma anche di Washington, molti utenti “qualsiasi” del web cinese (microblog, forum, commenti agli articoli) sembrano avere ben inquadrato le contraddizioni legali che testimoniano dell’incompletezza dello Stato di diritto nel loro paese.
A scatenare le reazioni, come si è visto, è stata soprattutto la dichiarazione del portavoce del Ministero degli esteri, Liu Weimin, quando ha detto: “Vorrei ribadire ancora una volta che la Cina è un Paese governato dalla legge, i diritti legittimi e gli interessi dei suoi cittadini sono regolati dalla costituzione e dalla legge e, allo stesso tempo, ogni cittadino è obbligato a rispettare la costituzione e le leggi, e a garantire la sicurezza, l’onore e gli interessi nazionali”.
Su Weibo, un utente scrive: “Mi scusi, portavoce dello Stato nazionale di diritto, il nome del signor Chen è stato immediatamente cancellato [dai microblog], secondo quale legge? Vi chiedo ancora, Vostro Onore, in base a quale legge il signor Chen è stato per diversi anni agli arresti domiciliari? Secondo quale diritto è stato picchiato? Le molestie alla sua famiglia, in base a quale legge? Il fatto che non gli siano state consentite cure mediche si è basato su quale norma? Quale legge impedisce alla figlia di frequentare la scuola?"
Un imprenditore di Ningbo – ripreso come quello precedente da World View Blog – scrive invece (sempre su Weibo): “Siamo preoccupati per questi eventi … non allo scopo di minare la stabilità sociale, ma solo perché siamo preoccupati per lo stato del paese, lo stato della società, e perché siamo patriottici”.
Qualcuno gli risponde: “Il Partito comunista non ci permette di essere patriottici”, utilizzando i caratteri di “falce” e “martello” al posto di quelli per “Partito comunista”.
Sia inteso, stiamo parlando della minoranza di una minoranza: i netizen cinesi non sono la Cina tutta e da queste parti, a livello di opinione pubblica, l’eco del caso di Chen risuona molto meno che in Occidente.
[Scritto per E Il Mensile; Foto Credits: chineselaw.biz]* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano.