La guerra alla droga della Repubblica Popolare

In by Simone

«Sono un ex tossicodipendente. Ho provato molte volte a disintossicarmi e sono stato rinchiuso per otto volte nei campi di lavoro. Non voglio tornare lì dentro, è un mondo terrificante. Un’oscurità senza limiti». Prendendo spunto da queste parole, Dove l’oscurità non conosce limiti è il titolo scelto da Human Rights Watch, organizzazione per la difesa dei diritti umani con sede a New York, per il suo ultimo rapporto sulla situazione nei cosiddetti «centri di riabilitazione» per tossicodipendenti in Cina. Secondo il gruppo umanitario si tratterebbe, in realtà, di vere e proprie prigioni, dove i tossicodipendenti sono sistematicamente vittime di pestaggi e ricatti, spesso costretti ai lavori forzati. Basate sulle ricerche dell’organizzazione nelle due province meridionali dello Yunnan e del Guangxi, zone considerate ad alto rischio, non lontane dal «triangolo d’oro» della produzione di droga tra Birmania, Laos, Vietnam e Thailandia, le trentasette pagine del rapporto evidenziano così i limiti della legge sulla droga entrata in vigore in Cina nel 2008.

Considerata «una pietra miliare» nella storia della lotta contro la droga, la legge abbraccia diversi aspetti che svariano dalle politiche educative, alla riabilitazione dei tossicodipendenti, alla lotta contro il narcotraffico internazionale.
Nonostante i richiami alla salvaguardia della salute e dei diritti dei sospetti consumatori, nella pratica, la legge espande i poteri della polizia riducendo le garanzie per le persone accusate di far utilizzo di droghe. «Invece di mettere in atto una vera terapia per il trattamento della dipendenza dalla droga, la nuova legge cinese espone le persone alla detenzione arbitraria e a trattamenti inumani», afferma l’epidemiologo Joe Amon, uno degli autori del rapporto. I tossicodipendenti rinchiusi nei centri di riabilitazione, continua Amon, «non godono neanche dei diritti degli altri detenuti». Le violazioni segnalate dal rapporto sono innumerevoli. La polizia locale ha l’autorità di tenere in custodia le persone e sottoporle a test delle urine anche senza un ragionevole sospetto che possano fare uso di droghe. E si sono allungati anche i periodi di «detenzione» nelle strutture, non più da sei mesi a un anno, ma dai due ai sette anni, senza nessuna supervisione da parte delle autorità giudiziarie.


Come racconta a Hrw un ex «paziente» in questi centri spesso si rischia la vita: «Se un detenuto muore a causa delle botte, fuori nessuno lo verrà mai a sapere – spiega l’uomo – la polizia poi racconterà alla famiglia che è morto perché malato». Il problema maggiore dei centri, nati come strutture per la disintossicazione, rimane tuttavia l’assenza di assistenza sanitaria e di reali terapie, questo anche per i pazienti affetti dal virus HIV. «Le persone si ammalano gravemente perché quando entrano lì sono già malate – spiega Tan, un altro ex  paziente – una volta entrati le loro cattive condizioni diventano ancora peggiori». Ad oggi, secondo i dati forniti dal Programma delle Nazioni Unite per l’AIDS/HIV (UNAIDS), le persone rinchiuse nei centri di detenzione obbligatoria sarebbero almeno mezzo milione. Sono la punta dell’iceberg di un problema sociale ancora profondamente radicato in Cina. Alla nascita delle Repubblica popolare cinese nel 1949 si stima che almeno 20 milioni di persone facessero uso di oppio. Una piaga contro la quale il Partito comunista di Mao reagì in modo duro e risoluto con metodi spicci. La campagna per sradicare la droga dal paese prevedeva la pena di morte per i coltivatori e i commercianti, mentre riservava una terapia a base astinenza e lavori forzati per i consumatori.

Oggi ai campi di rieducazione attraverso il lavoro si sono sostituiti i centri di detenzione obbligatoria, la cui popolazione ha visto un notevole aumento a partire dal 2005 quando l’allora ministro per la Pubblica sicurezza, Zhou Yongkang annunciò «una nuova guerra popolare contro le droghe illegali». Alla linea dura del ministro per la Pubblica sicurezza si contrappone il programma di riduzione del danno portata avanti dal ministero della Salute. Una politica incentrata sulle 600 cliniche per la somministrazione del metadone aperte in 22 province. Un trattamento, ora esteso anche chi è stato ricoverato nei centri di detenzione, che ha già raggiunto oltre 47 mila consumatori e punta ad aiutare almeno 200 mila persone. Un approccio diverso e positivo, che oggi però ha aiutato solo il 4,5 percento dei 5 milioni di tossicodipendenti cinesi. Un approccio che va nella direzione di un trattamento basato su «principi umanitari», ricorda un alto dirigente cinese, lontano dallo stato di polizia che attualmente gestisce il recupero dei tossicodipendenti.

[Pubblicato su Il Riformista il 10 gennaio 2010 – Foto da http://chinadigitaltimes.net/]