La lettera che chiede le dimissioni del presidente cinese (nonché segretario del Partito comunista) Xi Jinping e le sue conseguenze immediate, gli arresti e le detenzioni di persone ritenute coinvolte se non nella sua stesura, quanto meno nella sua diffusione, indicano una difficoltà della leadership di Pechino a rendere omogeneo tutto il Partito, di fronte alla figura di un numero uno che si è via via rivelato accentratore anche più dei suoi predecessori. Significa che quelle lotte intestine diventate pubbliche durante lo scandalo Bo Xilai sono ancora lì, non sopite e pronte a scattare a ogni segnale di debolezza del Partito. L’impressione è che si tratti di tentativi che finiranno per consolidare ancora di più la posizione di Xi Jinping, leader che si è saputo armare di validi scudieri in grado di eliminare anche rivali contrari alla sua politica. I firmatari per altro hanno inserito nella loro lettera alcuni avvertimenti macabri, come quelli che si riferiscono all’integrità fisica di Xi e dei suoi famigliari, che pongono perfino dubbi sulla veridicità del testo.
Prendendolo per buono, al presidente cinese vengono evidenziati tre problemi della sua azione: in primo luogo il disastro economico dovuto al tonfo in borsa e la perdita di soldi da parte di tante persone; in secondo luogo una politica estera eccessivamente aggressiva, a dire loro, che avrebbe finito per riportare gli Stati uniti ad un ruolo piuttosto pericoloso nell’area (abbandonando così – secondo i firmatari – la teoria della politica estera di Deng Xiaoping che puntava a «nascondere» la potenza cinese sotto forma di una diplomazia più subdola e apparentemente più accomodante).
Xi Jinping viene infine accusato di aver coltivato un culto della personalità che avrebbe finito per sradicare la «guida collegiale» del Partito.
I «fedeli membri del Partito» con questa lettera finiscono però per dimostrare poca forza, prima di tutto. Nella liturgia tutta cinese fatta di messaggi trasversali, quanto esce pubblicamente – di solito – ha lo stampo della debolezza, al contrario di imboscate interne capaci di partire del tutto silenti, salvo poi ottenere risultati. In secondo luogo la lettera appare densa di conservatorismo e volontà di mantenere lo status quo e quindi, dato il percorso comunque intrapreso dal paese, i desiderata di chi l’ha scritta sembrano inesorabilmente destinati a soccombere di fronte alla storia.
Più interessante appare una lettura di tipo «comunicativo» che permette di scorgere la necessità, da parte di chi contesta la presidenza, di armarsi di strumenti in grado di incidere quella realtà ovattata creata dal sistema informativo cinese, oggi ancora più sottoposto al potere rispetto al passato. E questo secondo aspetto indica il sentiero di una riflessione che avvicina Pechino alla gestione del consenso che possiamo ritrovare anche in altri sistemi politici.
Xi Jinping di recente ha compiuto una visita nel quartier generale dell’agenzia di stampa cinese, la Xinhua, invocando la «fedeltà al partito» e ribadendo una più generale necessità che i mezzi di informazione funzionino come cassa propagandistica delle azioni di governo. Si tratta di qualcosa che ben si inserisce nella considerazione, si permetta la generalizzazione, che tanti cinesi hanno del giornalismo (compresi molti addetti ai lavori). Ma in generale richiedere alla stampa una narrazione capace di supportare, anziché puntellare e imporre al potere una condotta attenta, non sembra oggi un desiderio esclusivo del leader cinese.
[Scritto per il manifesto]