Mentre le presidenziali americane si avvicinano, la Corea del Nord ha già fatto la sua scelta: Donald Trump è l’uomo giusto per ricucire i rapporti con la superpotenza. Nell’ultima settimana la stampa nordcoreana ha dedicato ben due editoriali al magnate che pochi giorni fa ha conquistato la nomination repubblicana per la corsa alla Casa Bianca.
Per la statale DPRK Today, Trump è un «politico saggio» e un «candidato lungimirante»; Hillary Clinton una «stupida testarda» intenzionata ad applicare il modello iraniano per perseguire la denuclearizzazione della penisola coreana. L’articolo pubblicato martedì a firma di Han Young-muk, accademico con base in Cina, loda il progetto vagheggiato dall’imprenditore (in un precedente intervista al New York Times) di ritirare le truppe statunitense parcheggiate in Corea del Sud nel caso in cui Seul rifiutasse di contribuire più incisivamente alle spese per la difesa nazionale.
«Andatevene via! Presto! Chi avrebbe mai detto che lo slogan ‘Yankee Go Home‘ che abbiamo urlato con entusiasmo sarebbe potuto diventare realtà tanto facilmente», incalza Han spiegando che il giorno in cui questo avverrà veramente la penisola coreana tornerà ad essere unita. Secondo Pyongyang, infatti, sebbene la Guerra di Corea si sia conclusa con un precario armistizio – piuttosto che con un trattato di pace – a creare tensione nella regione è sopratutto la massiccia presenza di truppe a stelle e strisce a sud del 38esimo parallelo.
«La tragedia è che le autorità del Sud sono incapaci di provare alcuna vergogna, anche quando i loro padroni americani li sottopongono a umiliazioni insopportabili. Lo dimostra il modo in cui reagiscono terrorizzati ai commenti di Trump», rincara la dose il Rodong Sinmum, il quotidiano ufficiale del Partito dei Lavoratori, di cui il leader Kim Jong-un è stato eletto capo durante il Congresso dello scorso mese. Stando a quanto riportato dal New York Times, funzionari di Seul sarebbero già in contatto con lo staff di Trump per tentare di convincere il candidato repubblicano a ritrattare la sua posizione riguardo un ipotetico disimpegno americano dalla penisola.
Nessuno degli articoli, tuttavia, fa riferimento alla proposta del tycoon di fornire a Corea del Sud e Giappone la possibilità di avvalersi un proprio arsenale nucleare in modo da allentare il cordone ombelicale che li lega militarmente a Washington. Mentre appena pochi giorni fa un’intervista rilasciata da Trump alla Reuters, in cui veniva ventilata l’ipotesi di abbandonare la tradizionale strategia isolazionista americana in favore di una ripresa dei colloqui con il Regno Eremita (letteralmente: «non avrei problemi a parlare direttamente con lui [Kim Jong-un]»), era stata accolta con diffidenza dalla nomenklatura nordcoreana. «Un’operazione di facciata», così l’aveva bollata a stretto giro l’ambasciatore nordcoreano presso le Nazioni Unite So Se-pyong, che aveva aggiunto: «Spetta al mio Leader Supremo decidere se incontrarlo o meno. Tuttavia, penso che l’idea non abbia alcun senso».
Sino ad oggi, Washington ha sempre rigettato l’ipotesi di ripristinare il dialogo in mancanza di un seria rinuncia di Pyongyang al suo programma nucleare. Rinuncia che parrebbe essere fuori discussione stando alle recenti provocazioni missilistiche e a quanto riferito dall’ex ministro degli Esteri Ri Su-yong, attualmente in visita a Pechino per aggiornamenti sugli esiti del Congresso del Partito dei Lavoratori e sulla Byungjin Line, la strategia che poggia simultaneamente sul doppio binario della crescita economia e dello sviluppo nucleare. Dopo il quarto test atomico e il lancio balistico a lungo raggio di inizio anno, le relazioni con il potente benefattore si sono ulteriormente incrinate. Ecco che il riavvicinamento allo Zio Sam può essere ragionevolmente inserito in un contesto di crescente emarginazione del regime nordcoreano sullo scacchiere internazionale.