Vent’anni dallo storico viaggio al sud di Deng Xiaoping. L’apertura economica fu una svolta epocale per la Cina e il mondo intero. Per capire cosa significa oggi e come inciderà sulle politiche dei nuovi leader, China Files ha analizzato la stampa locale e ha raccolto le opinioni di Béja, Congiu, Masini, Miranda e Orlandi.
Il discorso con cui la scorsa settimana il primo ministro cinese Wen Jiabao ha esortato a maggiori tutele per i contadini espropriati riecheggia le parole pronunciate da Deng Xiaoping vent’anni fa, scrive la stampa cinese.
“Le riforme e il processo di apertura devono essere portati avanti con risolutezza, in caso contrario arriveremo a un punto morto”, ha detto il premier, in visita nel Guangdong, citando il Piccolo Timoniere nel suo storico tour al sud.
Quel viaggio dell’inverno del ’92 (18 gennaio – 21 febbraio) fu un punto di svolta nella storia della Cina, con cui Deng volle rilanciare l’apertura economica messa in discussione dopo il massacro di piazza Tian’anmen.
Nel ventennale del nanxun, oltre 200 tra studiosi, accademici ed esponenti del Partito comunista si sono dati appuntamento a Pechino per celebrare la ricorrenza. “Dobbiamo preservarne lo spirito”, ha detto il giurista Hu Deping, già preside della Chinese University of Politics Law e figlio di Hu Yaobang , segretario del Partito e leader riformatore epurato nel 1987, la cui commemorazione funebre due anni dopo dette inizio al movimento che si concluse con la repressione del 4 giugno.
Nell’anno in cui la Repubblica popolare attende il cambio di vertice, previsto per l’autunno, le celebrazioni ufficiali non hanno tuttavia reso grazia all’importanza dell’anniversario. “Queste commemorazioni sottotono sono un segno del fatto che all’interno della leadership non c’è unità. Tuttavia le divisioni ai vertici del Pcc non ricalcano le contrapposizioni ideologiche degli anni Ottanta”, ha detto a China Files Marina Miranda, professore associato di Storia della Cina contemporanea all’università la Sapienza di Roma, “Prima del tour sarebbe stato forse possibile fare marcia indietro nel processo di riforma, dopo no”. Il nanxun impresse quindi una svolta irreversibile.
“Il viaggio può essere compreso soltanto nel quadro del 4 giugno 1989, quando con la decisione di reprimere il movimento democratico mandando i carri armati, Deng sbilanciò l’equilibrio politico, rafforzando la fazione conservatrice”, ha sottolineato il professor Jean-Philippe Béja direttore di ricerca al Centre National del la Recherche Scientifique – Centre d’Etudes et de Recherches Internationales (CNRS-CERI) di Parigi, “All’epoca ci fu un accordo sulla salvaguardia della stabilità per impedire che si potesse sviluppare un’opposizione politica. Tuttavia i conservatori ne approfittarono per mettere in discussione la politica di apertura e riforma.
Nei due anni seguenti ci fu una ripresa dei movimenti contro le imprese di villaggio e contro gli imprenditori. Ci fu un tentativo di rilanciare la pianificazione industriale e ostacolare l’apertura all’estero”. Tutto ciò nonostante già quattro giorni dopo il massacro lo stesso Deng Xiaoping avesse annunciato il proseguimento delle riforme.
“Questo grande Balzo indietro lo spinse a riprendere l’iniziativa e rilanciarla con ancora più forza, partendo proprio dal sud, dove i conservatori denunciavano l’influenza straniera a Shenzhen e nelle altre Zone economiche speciali”, prosegue Beja, “E non dobbiamo dimenticare che all’epoca Deng aveva mantenuto soltanto la carica di presidente del club di bridge”.
Un viaggio dettato da motivi internazionali e interni. “Dal punto di vista internazionale tutto il 1990 fu un anno di isolamento per la Cina”, ricorda il professor Federico Masini, sinologo e Prorettore della Sapienza, “All’interno fu un modo per mandare un segnale alle province meridionali che continuavano a scalpitare per riprendere l’attività economica e i legami con l’estero, fondamentali per lo sviluppo del Paese. Poi i fatti hanno dimostrato che fu proprio il Guangdong a sviluppare questa tendenza alla produzione e all’export”.
Il sorpasso sul Giappone con cui la Cina è diventata la seconda economia al mondo è il simbolo di questa cavalcata fatta di tassi di crescita sopra l’8 per cento. Assieme ad altri traguardi, come aver raggiunto i 4mila dollari di Pil pro capite con quarant’anni d’anticipo rispetto alle aspettative dello stesso Deng che fissava questo obiettivo per la metà del XXI secolo. “Il Paese si deve tuttavia confrontare con una serie di nuovi problemi”, scriveva a metà gennaio il settimanale economico Caijing, che al ventennale ha dedicato una copertina.
“Il processo di decentralizzazione avviato sin dagli anni Ottanta, ha lentamente trasferito l’autorità, gli oneri e i poteri fiscali e amministrativi dallo Stato centrale ai governi locali e alle singole aziende. Ciò ha determinato l’emergere di una dura competizione fra governi locali e aziende, in particolare nell’ambito delle capacità di attirare investimenti, che ha determinato a sua volta l’abbattimento dei costi del lavoro e dell’ambiente, l’accrescimento delle disparità economiche e sociali e sempre più corruzione, accompagnati parallelamente da una perdita del potere d’azione dello Stato centrale”, ha spiegato Francesca Congiu, assegnista all’Università di Cagliari e curatrice della sezione sulla Cina dei volumi Asia Maior.
Un dato su tutti. Secondo la Banca mondiale nel 2009 il coefficiente di Gini della Repubblica popolare ha raggiunto lo 0,47 per cento (su una scale in cui lo zero indica l’eguaglianza assoluta e l’uno la disparità) e si attesta sopra lo 0,4 per cento oltre il quale aumenta il rischi di proteste sociali.
“Il divario tra ricchi e poveri non deve essere un freno alle riforme”, ha scritto qualche settimana fa il China Daily, “al contrario il processo dovrà essere ancora più profondo e duraturo proprio per arginare una situazione tutt’altro che soddisfacente”.
“Finché le riforme saranno usate per preservare il monopolio politico del Partito possono essere considerate morte”, è invece il pensiero di Minxin Pei affidato alle colonne del Financial Times. Tanto più che il processo sembra essersi fermato dopo l’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale del commercio, dieci anni fa, cui è tuttavia seguito un rafforzamento del legame tra imprenditoria e politica, con gli industriali che sono allo stesso tempo quadri politici.
“Hanno ragione entrambi”, ha detto Romeo Orlandi, direttore di Osservatorio Asia, “Una fase dello sviluppo economico sembra essere arrivata a conclusione. È quella della Cina fabbrica del mondo. Questo tipo sviluppo ha subito un rallentamento perché un Paese non può crescere sempre producendo più acciaio, più elettronica, etc. Bisogna qualificare lo sviluppo e per questo c’è bisogno di riforme: snellire la burocrazia, migliorare l’accesso al credito, avere un rapporto meno conflittuale tra centro e periferia.
D’altra parte la dirigenza, per fare queste riforme che in Cina sono intese come riforma dell’amministrazione e dell’economia, ha bisogno di un forte mandato politico. Infatti questi provvedimenti intaccano forti interessi locali, delle banche, della distribuzione. Una serie di minipoteri nati sull’onda dello sviluppo economico che sono nel mirino della nomenclatura di Pechino, ma troppo consolidati per essere sconfitti”.
Compiti che potrebbero spettare alla nuova leadership, la prima non nominata da un leader carismatico quale fu Deng Xiaoping e prima ancora Mao Zedong e che, salvo improbabili sorprese, vedrà ai vertici Xi Jinping quale presidente e Li Keqiang nel ruolo di primo ministro.
“Sarà la prima successione normale”, ha sottolineato il professor Béja, “È però difficile sapere se sarà forte come quella di Hu Jintao che per parte sua fu unto da Deng. La ricetta per riuscire in Cina è nascondere le proprie posizioni finché non si arriva al potere. Hu ha governato cercando il consenso e almeno all’inizio i nuovi leader non si discosteranno da questa politica”.
Per il professor Masini: “La generazione che va via è legata ai fatti del 1989. Hu Jintao era a capo del Partito in Tibet durante la repressione di marzo; Wen Jiabo, stava alle spalle di Zhao Ziyang quando questi incontrò gli studenti. Sono tutte persone ancora legate a quella ferita non ancora rimarginata. La nuova generazione vuole voltare pagina”.
L’aspetto fondamentale per capire le future dinamiche, ha sottolineato, sarà guardare alla composizione del nuovo comitato centrale. “Per usare un nostro termine partitico bisognerà concentrarsi su quali maggioranze si andranno a creare. Perché i singoli sono importanti ma sono espressione di una maggioranza”.
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