Prendendo in prestito le parole di un suo amico cinese, Giada Messetti sostiene che “la Cina è un’aragosta”. L’immagine è particolarmente azzeccata perché come l’aragosta, che crescendo è costretta ad abbandonare il vecchio carapace e ad aspettare, vulnerabile, che se ne formi uno nuovo, anche la Cina di oggi sta vivendo una fase di muta faticosa e complessa. Dopo aver raccontato nei suoi saggi precedenti, Nella testa del Dragone (2020) e La Cina è già qui (2022), l’attualità e le dinamiche culturali del Celeste Impero, in La Cina è un’aragosta (in uscita il 1 aprile per Mondadori) Messetti si concentra sulla società cinese, chiudendo un’ideale trilogia. China Files propone un estratto per gentile concessione dell’editore.
China girls: donne moderne
Il suo taxi è rimasto imbottigliato nel traffico sulla Chang’an Jie, l’imponente viale che attraversa Pechino da ovest a est, nonché la via più lunga del mondo con i suoi 45 chilometri di estensione. Così, Wu Hailun – che ho conosciuto pochi giorni prima, a una degustazione di vini italiani – arriva all’appuntamento con un ritardo di 50 minuti. È un medico affermato e una grande viaggiatrice. In Cina ha girato parecchio, ma ha visitato spesso anche l’Europa, in particolare la Francia, la Spagna, l’Italia. Nonostante sia
una professionista stimata, vive ancora con i genitori. «Due anni fa ho preso Keke, una gatta bianca e nera. Le sono molto affezionata, anche perché mi ha aiutato a stemperare un po’ di tensioni nel rapporto con mia madre.» Wu lavora in ospedale dal lunedì al venerdì, nel weekend le capita spesso di scrivere articoli di ricerca per riviste specializzate.
Alina, invece, fa parte della minoranza etnica kazaka che risiede nello Xinjiang. L’ho incontrata per caso in una tiepida giornata d’autunno, mentre passeggiavo nel minuscolo villaggio di Kezile Tuogayi, adiacente al sito turistico delle Cinque Montagne colorate in questa remota provincia. Una ventina di casette basse, circondate da vacche, in mezzo al nulla, raggiungibile solo tramite una strada sterrata di
ghiaia e fango. Si è incuriosita nel vedere un gruppetto di occidentali che vagava tra gli edifici e ci ha invitato a entrare a casa sua. Un’unica stanza, piccola e buia, con le pareti azzurre e il pavimento in cemento. Ad arredarla solo un tavolo, una stufa a legna accesa e due credenze basse con sopra svariati tipi di pentole. Nessuna finestra. La luce proveniva esclusivamente da una lampadina elettrica penzolante dal soffitto di travi in legno scuro. Illuminava gli oggetti appoggiati sulla tavola: i quaderni e i pennarelli del figlio di sei anni intento a fare i compiti e un sacchetto pieno di yóuxiang (油香), le focaccine fritte tipiche di quest’area della Cina. «Sono molto imbarazzata» ci ha detto come prima cosa. «Oggi non mi sono truccata abbastanza e sonovestita male.» Non era vero. Semplicemente era in tenuta
lavorativa sportiva, una tuta grigia e un gilet di pile marrone. Aveva messo l’ombretto e un filo di mascara che dava risalto agli occhi. Sua madre, fino a quel momento curva sulla stufa a rintuzzare il fuoco, a un certo punto ci ha porto una bacinella di alluminio piena di burro fresco. «Spalmatelo sugli yóuxiang. Fidatevi, vi piacerà» ci ha suggerito Alina. Aveva ragione: una vera leccornia. Mentre mangiavamo, ci ha raccontato di vivere in quella casa solo in autunno, e di trascorrere il resto del tempo nella città di Burqin, dove gestisce un piccolo negozio di alimentari assieme ai due fratelli.
Wu Hailun e Alina, se escludiamo il fatto che hanno entrambe trentatré anni, non potrebbero essere più diverse. In comune hanno solo la stessa granitica certezza di non avere, almeno per il momento, nessuna intenzione di sposarsi. Alina è piombata sull’argomento senza preavviso, subito dopo averci presentato il figlioletto. «Non sono sposata e non mi voglio sposare» ci ha detto fiera, senza che nessuno glielo avesse chiesto. Wu Hailun, durante il nostro incontro a Pechino, si è concessa un po’ più di tempo prima di argomentare la sua scelta: «Sono uscita da poco da una storia di quattro anni in cui non ero felice. Un giorno ho avuto una specie di illuminazione e mi sono detta che quell’uomo non era adatto a me. Ci siamo lasciati e adesso sto finalmente bene. Sposarsi non è obbligatorio, quindi per ora è proprio l’ultimo dei miei pensieri».
Sono affermazioni che, sia negli anni in cui ho vissuto continuativamente a Pechino (2005-2011), sia nei miei viaggi nella Repubblica popolare fino al 2019, non avevo mai sentito fare con la frequenza di quanto mi è accaduto nel corso dei miei ultimi soggiorni cinesi nell’autunno del 2023 e del 2024. Di solito, avevo percepito preoccupazione da parte di donne, amiche e conoscenti arrivate ancora single ai trent’anni e avevo sempre sentito parlare delle «donne avanzo». Come accade spesso in Cina, le cose possono cambiare in modo rapidissimo: shèngnǚ ora è diventato un termine obsoleto. Non solo: è ritenuto discriminatorio e non si usa più. Un piccolo segnale che dimostra come nella Repubblica popolare si stia facendo strada una nuova e potente consapevolezza femminile, capace di mettere in crisi il modello tradizionale di famiglia: sempre più donne decidono di non sposarsi e di non fare figli.
All’inizio ho pensato fosse solo una mia sensazione, ma più parlavo con ragazze e donne cinesi, più mi che si trattava di una trasformazione molto concreta. E non solo nelle grandi città e tra le donne con alto livello di istruzione. Perfino la signora che faceva le pulizie nel residence in cui ho alloggiato, originaria di un piccolo villaggio nella Cina occidentale, mi ha detto che non vuole più pressare sua figlia affinché si sposi, perché «un matrimonio nefasto è molto peggio che restare da sole». Una grande metamorfosi, soprattutto in un paese in cui nel 2021, secondo l’Ufficio nazionale di Statistica, c’erano 35 milioni di uomini in più rispetto alle donne. Il surplus di maschi è dovuto ai decenni di politica del figlio unico adottata a partire dal 1979. Il governo cinese all’epoca aveva seguito dei calcoli che, con il tasso di natalità di quella fase (tre figli per ogni donna), indicavano un aumento della popolazione cinese oltre i 4 miliardi di persone entro il 2080: una seria minaccia alla crescita economica e alla modernizzazione del paese. La preferenza per il figlio maschio ha provocato negli anni in tutto il territorio nazionale milioni di aborti selettivi di feti femmina.
I dati ufficiali affermano che nel 2022 il numero dei matrimoni ha toccato il minimo storico. Solo 6,83 milioni di coppie sono convolate a nozze, circa la metà rispetto al record del 2013, con i suoi 13,47 milioni di unioni registrate. Siccome in Cina il matrimonio rimane culturalmente un prerequisito fondamentale alla programmazione di un figlio, non è un caso che nel 2023 i nuovi nati siano stati solo 9,02 milioni, la cifra più bassa da quando le autorità hanno cominciato a tenere il conto nel 1949. Ormai da circa un decennio il trend del numero dei matrimoni è in calo – eccetto una lieve ripresa del 12,4 percento nel 2023, legata all’allentamento delle restrizioni dovute al Covid – e l’età dei contraenti il vincolo in aumento. Nel 2020 i cinesi al primo matrimonio, si legge nelle statistiche ufficiali, avevano mediamente 28,6 anni, 3,8 anni in più rispetto ai 24,8 anni del 2010.
Sicuramente una delle cause del fenomeno è rintracciabile nel fatto che, nella Repubblica popolare di oggi, sposarsi e crescere un figlio, assicurandogli una buona istruzione, è diventato particolarmente oneroso. Il think tank cinese YuWa Population Research ha calcolato che, per il percorso completo dall’asilo all’università, una famiglia può arrivare a spendere 680.000 yuan (circa 88.000 dollari). Con
la disoccupazione giovanile ai massimi storici e gli stipendi per molte categorie professionali che rimangono al palo o diminuiscono, non si tratta di cifre alla portata di tutti.
Un altro fattore determinante è l’acquisto di un immobile, come mi ha spiegato pragmaticamente una sera Liu Mengran, venticinquenne in carriera conosciuta a Pechino. «In Cina c’è un detto tradizionale che recita: “Prima si compra una casa e poi ci si sposa”» (先有房再结婚, Xiān yǒu fáng zài jiéhūn). «Il matrimonio implica l’acquisto della casa. E la casa costa… quindi meglio stare da sole!»