Ennesimo botta e risposta a colpi di dazi tra Washington e Pechino. Li Qiang rassicura le imprese, Xi Jinping ammorbidisce la retorica sui vicini asiatici. Tokyo, Seul e Hanoi provano a trattare. Taiwan costretta a usare i chip, ottimismo nelle Filippine
La spirale rischia di finire fuori controllo. Ieri mattina, i dazi imposti da Donald Trump contro la Cina sono saliti al 104%. La colpa di Pechino? Non aver ceduto. Come previsto, la prova di resistenza prosegue, visto che poche ore dopo il ministro del Commercio cinese ha annunciato una risposta del tutto simmetrica: 50% di tasse aggiuntive su tutte le importazioni dagli Usa, che insieme al 34% predisposto venerdì scorso porta il totale all’84%. Non è tutto. Presentando un ulteriore ricorso all’Organizzazione mondiale del commercio, Pechino ha aggiunto 12 entità americane (tra cui Novotech, Echodyne e American Photonics) alla sua lista di controllo delle esportazioni e sei aziende alla sua lista di entità inaffidabili, che le sottopone a restrizioni sugli investimenti e sul commercio.
L’escalation innescata dalla Casa bianca rischia di far schizzare alle stelle i prezzi di un’ampia serie di prodotti, a partire da dispositivi elettronici di qualsiasi tipo, veicoli elettrici, giocattoli. E soprattutto smartphone, che rappresentano quasi il 10% del totale del mastodontico export cinese negli Usa. “Non vogliamo una guerra commerciale, ma siamo costretti a combattere”, continuano a ripetere da Pechino, consapevoli di essere il vero obiettivo di Trump. In serata, altro passo significativo, col governo cinese che ha emesso un avviso di rischio per i turisti che intendono recarsi negli Stati uniti. Meglio evitare insomma, mentre Amazon sta già cancellando diversi ordini di prodotti in arrivo dalla Cina o altri paesi asiatici. Saranno proprio i piccoli venditori, insieme ai consumatori americani, a pagare le conseguenze maggiori della furia tariffaria di Trump.
Già prima dell’annuncio dell’ennesimo round di contro dazi, a Pechino ieri è stata una giornata convulsa e significativa. Il premier Li Qiang ha incontrato economisti e grandi manager cinesi, preannunciando una serie di misure di stimolo di economia, mercato dei capitali e consumi. Messaggio di fondo: niente panico, il ruolo della Cina nelle catene di approvvigionamento globale resta difficilmente sostituibile e il governo adotterà politiche proattive. Risultato: le borse cinesi hanno chiuso in positivo, Hong Kong compresa, in controtendenza con gli altri listini asiatici.
In serata, pubblicato un libro bianco sulle relazioni commerciali con gli Usa. “La natura dei rapporti bilaterali è benefica per entrambi”, dice Pechino, che sostiene di aver mantenuto gli impegni dell’accordo di fase uno raggiunto con la prima amministrazione Trump. Per poi criticare unilateralismo e protezionismo. La mossa pare volta a presentare globalmente la Cina come garante del libero commercio e parte razionale dello scontro, aprendo le porte a un possibile negoziato su cui però nessuno pare disposto a mostrare debolezze.
Nel frattempo, Xi Jinping ha presieduto una inusuale conferenza sui rapporti coi paesi confinanti, proponendo il suo mantra di “futuro condiviso” nel tentativo di ammorbidire la retorica sui vicini asiatici, da cui si spera di ricevere qualche sponda nella risposta ai dazi. A questo scopo servirà l’imminente tour di Xi nel Sud-est asiatico, al via dopo l’incontro col premier spagnolo Pedro Sanchez.
Per il momento, però, il resto dell’Asia prova a negoziare. Sia il premier giapponese Shigeru Ishiba che il presidente ad interim sudcoreano Han Duck-soo hanno parlato con Trump, inviando team di alti funzionari per trovare un accordo. Tokyo offre un aumento delle importazioni e un tetto all’export di alcuni prodotti, in cambio di tagli ai dazi o esenzioni sul cruciale settore auto. Seul promette investimenti nella cantieristica navale e su un oleodotto in Alaska, oltre a un aumento delle spese militari per il mantenimento delle circa 29 mila truppe americane presenti in Corea del sud. Per cancellare o ridurre i dazi al 46% imposti da Washington, il Vietnam offre invece l’azzeramento delle tasse aggiuntive sui prodotti americani e un sostanziale aumento di merci. Compresi dispositivi per sicurezza e difesa, nella definitiva rottura dell’antico tabù derivante dalla guerra combattuta nel secolo scorso. Le Filippine, complici dazi più bassi dei vicini, sperano invece di attrarre linee produttive in uscita dagli altri paesi della regione.
Taiwan pare costretta a usare la leva strategica dei chip, dando il via libera a una possibile joint venture tra il suo colosso TSMC e l’americana Intel, con un trasferimento che minaccia in parte di indebolire lo “scudo di silicio” a protezione dell’isola. La sensazione è che, in assenza di accordi con Xi, Trump possa allargare lo scontro al dossier taiwanese. Nei giorni scorsi, il ministro degli Esteri e il consigliere per la sicurezza nazionale di Taipei sono stati ospitati negli Usa per “colloqui segreti”, pochi giorni dopo il nuovo round di esercitazioni militari di Pechino sullo Stretto.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.