La caduta del governo Draghi vista dalla Cina

In Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Pechino non nasconde una punta di soddisfazione per l’addio di SuperMario, ma sa che un governo di destra potrebbe esserle anche più ostile. Il Global Times: «Le sanzioni contro la Russia sono dannose per l’Italia»

Il Dragone guarda Draghi cadere. E non riesce a nascondere un pizzico di soddisfazione, pur sapendo che dopo di lui a Palazzo Chigi potrebbe arrivare qualcuno di ancora più ostile. La Cina osserva l’ennesima crisi di governo italiana e coglie l’occasione per addossarne la colpa al posizionamento filo Usa e filo Nato. «Il sostegno dell’Italia all’Ucraina e l’aumento graduale delle sanzioni contro la Russia sono dannosi per la soluzione dei problemi interni dell’Italia», ha scritto il tabloid di stato in lingua inglese Global Times. Dopo aver sciorinato i dati su crescita e inflazione, arriva un’altra stilettata a Draghi, che «si è preoccupato più del conflitto in Ucraina» del benessere degli italiani. Spazio poi alla retorica anti americana portata avanti da Pechino dall’inizio della guerra: «Se i paesi europei continuano a seguire ciecamente la politica degli Stati uniti, i loro leader politici dovrebbero essere pronti ad affrontare le conseguenze». Il China Daily e le emittenti tv hanno preferito sottolineare implicitamente le difficoltà dettate da un sistema politico intrinsecamente instabile.

La caduta di Draghi, dopo quella di Boris Johnson, rappresenta per Pechino un ulteriore segnale della «disgregazione della coesione politica» in occidente. Il che rafforza la convinzione del governo cinese di essere sul sentiero giusto. La crisi italiana avviene durante la marcia di avvicinamento al XX Congresso del Partito comunista del prossimo ottobre che con ogni probabilità darà via libera allo storico terzo mandato di Xi Jinping. Granitica stabilità da una parte, perenne volatilità dall’altra.

Non a caso a Pechino, quando si parla di politica italiana, cita quasi sempre soltanto Mattarella. Era stato così anche nel 2019, quando il governo gialloverde aderì alla Belt and Road Initiative. Fari spenti su Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Luigi Di Maio (che di lì a poco si sarebbe prodotto nella celeberrima gaffe del presidente “Ping”), prima della retromarcia del governo giallorosso e la totale giravolta di Draghi. L’ex presidente della Bce ha riportato con decisione l’Italia sui classici lidi euroatlantici, utilizzando o minacciando di utilizzare a più riprese il golden power per bloccare acquisizioni di aziende italiane. Non solo sul 5G, col blocco ufficioso di Huawei, ma anche sulla strategica industria dei semiconduttori. Ultima “vittima” dei ripensamenti sinoitaliani la Motor Valley emiliana, con gli investimenti da oltre 1,3 miliardi promessi da Silk Faw che rischiano di non arrivare mai.

Ma la Cina sa che un governo di destra con Fratelli d’Italia alla guida potrebbe avere una linea ancora più ostile a Pechino. Giorgia Meloni ha sempre avuto una posizione trumpiana sulla Cina, mentre Salvini è passato dalle manifestazioni pro Hong Kong a incontrare l’ambasciatore cinese. Berlusconi esemplifica invece la classica traiettoria della concezione italiana della Repubblica popolare: opportunità fino al 2018-2019, minaccia ora.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su Il Manifesto]

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