Le imprese cinesi avevano messo gli occhi sul porto di Taranto. Con una buona politica si sarebbe potuta salvare una città messa in ginocchio dalla disoccupazione e dall’inquinamento da diossina. Il testo qui presentato è un estratto de La nuova via della Seta (pp. 109-113, edizioni O barra O, 2011, € 12,50). China Files lo regala ai suoi lettori per gentile concessione della casa editrice. Buona lettura! Basta gettare lo sguardo su una cartina geografica: Grecia, Portogallo, Spagna. Per completare la ragnatela cinese sull’Europa del sud manca solamente un paese, l’Italia. Eppure il nostro paese è, fin dal tempo delle gloriose Repubbliche marinare, il terminal europeo e occidentale della Via della Seta. Le nostre regioni e i nostri porti meridionali sono, storicamente e geograficamente parlando, le Porte per l’Oriente. Marco Polo era veneziano, padre Matteo Ricci era italiano. Insomma l’Italia avrebbe un ruolo naturale di collegamento fra Europa e Oriente asiatico, fra Occidente europeo e Impero di Mezzo. E allora, che cosa accade fra Cina e Italia? Che cosa stanno facendo i cinesi in Italia?
TARANTO OGGI
Stanno cercando di entrare, e stanno incontrando i soliti problemi italiani. Prendiamo ad esempio Taranto, importante porto italiano, base navale di primaria importanza della Marina militare per le sue acque marittime, ma ancor più città drammaticamente alle prese con una difficile crisi economica e con una serissima condizione ambientale. Taranto è sede di un’industria siderurgica, la Ilva, conta oltre 8.000 disoccupati e presenta un inquinamento da diossina pauroso che ne fa uno dei siti più a rischio ecologico di tutto il paese.
L’EPOCA D’ORO
D’altro canto Taranto ha una storia invidiabile: dai tempi di Napoleone Bonaparte almeno, è considerato un porto di primaria importanza per i suoi fondali, per il grande golfo che lo protegge e per la sua posizione strategica verso il Medio Oriente. Nel Novecento, tramontati i tempi della Rivoluzione napoleonica, Taranto diventa una della capitali dell’industria siderurgica italiana, sede di uno dei maggiori insediamenti dell’Italsider, colosso delle imprese a partecipazione statale, gioiello della corona di Oscar Sinigaglia, il grande tecnocrate padre dell’industria pesante pubblica italiana degli anni Cinquanta. L’industria dell’acciaio però va in crisi.
GLI ANNI ’90
Negli anni Novanta Taranto entra in una grave crisi sociale e politica dopo l’elezione a sindaco di Giancarlo Cito, un personaggio poco presentabile, esponente del tipico populismo estremista antesignano di quello che avrebbe poi preso piede in altre parti dell’Italia. Oggi, infine, la città combatte fra la crisi della residua industria siderurgica ormai completamente privatizzata (l’Ilva ora fa parte del gruppo Riva) e i drammi di un inquinamento da diossina con pochi precedenti quanto a gravità.
ARRIVANO I CINESI
In questa Taranto arrivano i cinesi. O meglio arrivano due grandi compagnie portuali e di navigazione del mondo cinese. Alla fine degli anni Novanta, la taiwanese Evergreen Group, una delle più importanti compagnie a livello mondiale per la movimentazioni delle merci, acquisisce il controllo del 40% delle concessioni per i terminal container del porto di Taranto. Dopo pochi mesi un altro importante gruppo imprenditoriale di area cinese, questa volta di Hong Kong, Hutchison Whampoa (stiamo parlando della conglomerata capitalista probabilmente più importante di Hong Kong, in buona parte di proprietà del magnate Li Ka-Shing), acquisisce il controllo di un ulteriore 50% delle concessioni per i terminal del porto pugliese. Ora le due imprese di area cinese controllano il 90% delle concessioni portuali. Il rimanente 10% resta nelle mani di una compagnia italiana.
L’IMPORTANZA GEOGRAFICA
I cinesi di Taiwan, di Hong Kong o di Shanghai, arrivano con l’intenzione di fare affari, di investire, di creare un importante polo logistico per le merci asiatiche verso l’Europa. Per capire l’importanza della faccenda anche in questo caso basta prendere una cartina geografica, stavolta della sola Italia. Con il porto di Taranto come snodo chiave delle merci cinesi e asiatiche verso il vecchio continente, il trasporto via terra dei prodotti made in China diverrebbe più rapido, bypassando sia la lunga linea di navigazione marittima verso i grandi porti del Nord Europa sia le articolate linee di comunicazioni transfrontaliere che attraversano cinque o sei paesi dell’Europa sudorientale, Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia, Ungheria. Passando per Taranto, basta arrivare al Brennero per trovarsi già nel cuore della moderna Europa, senza passare nessuna frontiera. Il vantaggio per merci e trasporti è evidente.
INVESTIMENTI DISPONIBILI…
I cinesi intendono investire almeno 500 milioni di euro per migliorare la situazione delle installazioni portuali. Sembrerebbe un’occasione d’oro per una città afflitta dai problemi economici e ambientali che abbiamo indicato prima. Sembrerebbe… Ma come si sa, in Italia le cose sono sempre un po’ complesse. È una storia che vale la pena di farsi raccontare perché dice tanto sul “caso Italia”.
…E INFRASTRUTTURE NECESSARIE
Come spiega Francesco Sisci, un giornalista italiano molto attento alle vicende cinesi, “Hutchison ovviamente ha bisogno di investimenti non solo propri. Per un porto container ci vogliono tante cose. Ci vuole, ad esempio, una bretella di circa 30 chilometri che porti l’autostrada dalla periferia cittadina al porto, in modo da poter caricare direttamente i Tir dalle navi. Ci vogliono poi circa 3 chilometri di connessione ferroviaria per portarci i treni al porto. E poi vanno drenati i fondali marini per un paio di metri in modo da consentire l’attracco delle superportacontainers”. Progetti importanti, ma certamente non impossibili. I primi due investimenti, la bretella autostradale e la connessione ferroviaria sono opere “cantierizzate”, come si dice nel linguaggio della nostra burocrazia, ma ancora non si è visto nulla.
TEMPI ITALIANI
L’amministrazione comunale è ben disposta, ma i tempi sono quelli che sono per gli enti locali e per gli investimenti pubblici. È difficile trovare le risorse finanziarie. E poi c’è la questione dei fondali marini del porto. Che accade? Diamo di nuovo la parola a Francesco Sisci: “Il problema dei fondali sembra semplicemente irrisolvibile, anzi un vero incubo amministrativo. Siamo di fronte a terra che deve essere ‘trattata’ o meglio ‘purificata’ prima di essere spostata, e ciò comporta costi elevati e tempi lunghi. E poi il porto necessita anche di una diga foranea per proteggere le grandi navi… ma anche su questo fronte non è stato fatto nulla”.
L’OCCASIONE SFUMA
Morale: gli investitori cinesi si stanno stufando. I cinesi non sono tipi che si lasciano impressionare da procedure macchinose o da prassi, per così dire, lassiste. Sono abituati a tutto, ma chiedono una sola cosa: il risultato, ovvero il raggiungimento dello scopo. E se i risultati non arrivano allora si tirano indietro e se ne vanno. Ed è quello che accadrà a Taranto, la città Porta per l’Oriente in piena crisi sociale, economica, ambientale che rischia così di perdere la sua occasione nella moderna Via della Seta.
INTERESSE ASIATICO
E come Taranto, anche l’Italia rischia di veder sfuggire gli investimenti asiatici. Eppure le imprese cinesi, tanto per rimanere in tema, sono interessate all’industria italiana e a sviluppare rapporti con il nostro capitalismo. Come dimostrano gli accordi sottoscritti con imprese italiane sotto l’auspicio della Mandarin Capital Partners durante la visita a Roma del primo ministro cinese Wen Jiabao nell’ottobre del 2010.
ACCORDI CONCLUSI
E come dimostrano anche le tante iniziative imprenditoriali cinesi di qualità e di valore aggiunto nel nostro paese. Ci sono gli autobus a propulsione elettrica in Maremma con la Shanghai Leibo New Energy Auto Technologies e la Jiansu Alfa Bus Company. Ci sono gli impianti fotovoltaici in Puglia con la China Energy Conservation Group e i prodotti per l’illuminazione a Treviso con la Kinglong. Questo per fare soltanto qualche piccolo esempio, senza dimenticare 3 Italia, grande player nel settore della telefonia mobile, di proprietà della Hutchison Whampoa.
* Claudio Landi è un giornalista parlamentare, corrispondente di Radio Radicale dal Senato e animatore della trasmissione settimanale L’ora di Cindia, è autore dei libri Buongiorno Asia. I nuovi giganti e la crisi dell’unilateralismo americano (Vallecchi, 2004) e Il dragone e l’elefante. Cina e India nel secolo dell’Asia (Passigli, 2007).