Due film bangladeshi alla 17esima edizione del Festival del cinema di Calcutta. Uno è già stato bandito dalle sale. Entrambi indagano la prospettiva femminile nelle dinamiche della guerra di indipendenza del 1971.
L’auditorium principale del complesso Nandan, nel centro di Calcutta, è gremito di curiosi e spettatori. L’aria condizionata è dispiegata a tutta birra, come piace ai bengalesi.
La proiezione di turno è “Guerrilla”, un epico resoconto della strage del ’71 che ha raccolto un successo esorbitante in tutte le sale del Bangladesh, giovane e instabile democrazia del subcontinente indiano che si regge in piedi grazie a una trasversale mitizzazione del movimento per l’indipendenza e dei suoi prodi esecutori, gli eroi nazionali conosciuti come Freedom Fighters.
Il film, tratto dal romanzo Nishiddho Lobon e fedele alle vicende storiche sino al più trascurabile personaggio, affronta la tematica nel modo più convenzionale, ribadendo la classica dicotomia dispensata dal nazionalismo: bangladeshi eroici e valorosi, pakistani crudeli e alquanto stupidi.
Il regista nonché freedom fighter Nasiruddin Yusouf condisce la sua seconda pellicola dedicata alla guerra di liberazione (in bangla, muktijuddho) con fatti autobiografici, intervallati dalle canzoni patriottiche di Nazrul Islam riviste e riproposte in contesti poco felici.
A tutto ciò si aggiungono grandi scene di assalti ed esplosioni che, forse a causa del budget limitato, godono di effetti speciali tendenti al ridicolo.
Eppure Guerrilla è stato un trionfo di critiche e di incassi. Sbandiera la solita versione idealizzata di un tema ancora molto sentito fra la popolazione: l’attuale primo ministro del Bangladesh è la figlia di Mujibur Rahman, “padre della patria” e leader della liberazione dal tirannico giogo pakistano.
E anche perché il personaggio principale, la giovane Biklis, è un elemento innovativo, interessante e riuscito nel suo tentativo di guardare al dolore e al significato della rivolta con occhi femminili.
Biklis si trasforma da moglie annientata per la perdita del marito in austera e perseverante collaboratrice alla lotta per la liberazione, prima in maniera più schiva e cauta e gradualmente sempre più audace ed esposta, fino a consumarsi in un ultimo sacrificio, quello per cui si farà esplodere in una caserma di militari pakistani salvando il suo onore e quello della sua causa.
Con un fiammeggiante finale di martirio femminile che riecheggia un lontano Dil Se di Mani Ratnam, Nasiruddin Yusouf si conquista senza dissenso alcuno la più applaudita e commossa empatia del pubblico, allevato a pane e nazionalismo.
A quanto pare, la glorificazione dei propri eroi di guerra non è ancora un espediente datato né eccessivamente inflazionato per una audience la cui bandiera, che ha al centro un cerchio scarlatto, simboleggia il sangue dei propri caduti.
Diversa è la situazione di Rubayat Hussain, giovane e debuttante regista, bengalese di sangue, ma di fatto cresciuta e laureata negli Stati Uniti. Gli intenti e i toni della sua pellicola, ritirata dalle sale dopo una manciata di proiezioni, sono quel che di più diverso si possa immaginare rispetto al già trattato Guerrilla: ostinatamente lirico e tanto romantico da risultare a tratti indigesto, Meherjaan ritrae a sua volta le vicende della guerra dal punto di vista femminile, ma con un’attenzione più intima e privata.
Due sono le donne di cui lo spettatore condivide le esperienze: Nila, violentata da un branco di soldati pakistani e in dolce attesa di una figlia indesiderata, esorcizza la sua vergogna arruolandosi con le militanti dell’esercito popolare di liberazione. Meher invece, vivace e sensibile adolescente di provincia, decide di nascondere e ricoverare un giovane soldato pakistano gravemente ferito.
L’affascinante Wakim ha lasciato il Beluchistan e si è arruolato per mantenere unita la sua patria, ma arrivato nell’allora Pakistan orentiale si è rifiutato di eseguire l’ordine dei superiori, distruggere una moschea provocando l’uccisione di decine di uomini della sua stessa fede intenti a pregare.
Il latitante e la ragazza finiscono malauguratamente per innamorarsi, rivelando così al pubblico bengalese la possibilità che un soldato pakistano abbia un cuore.
A quanto pare l’opinione pubblica, fortemente infastidita dal ritratto anticonformista del lato umano dei nemici della patria, è andata su tutte le furie e i distributori stessi del film hanno prontamente tirato i remi in barca prima che la situazione si aggravasse ulteriormente.
Meherjaan ha volutamente optato per un casting di attori di nazionalità indiana, bengalese e pakistana e mette chiaramente in dubbio un nazionalismo che legittima la violenza e la discriminazione razziale.
Gli incontestabili freedom fighter sono a loro volta dipinti in qualità di esseri umani capaci di compiere errori e di abbandonarsi ad atrocità per raggiungere i propri fini.
Proveniente da una generazione forgiata in Occidente che non ha vissuto direttamente il massacro del ‘71, Rubayat Hossain propone alla gioventù bengalese una revisione dei propri ideali auspicando ad una futura e costruttiva riappacificazione.
Lo fa però in un momento particolarmente infelice: nei giorni dell’uscita di Meherjaan infatti il Bangladesh International Crimes Tribunal stava sentenziando dei sospettati criminali di guerra e ancora oggi la questione della vendetta giuridica verso i responsabili dell’eccidio di tre milioni di vite e dello stupro di circa duecentomila donne è una spinosa questione irrisolta.
La ferita da cui sgorga l’indipendenza è forse ancora troppo aperta per permettere un maturo ridimensionamento dell’odio: nonostante il Bangladesh Film Censor Board abbia ufficialmente dato il suo bollo di approvazione affinché il film venisse lecitamente distribuito, i commenti degli spettatori si sbizzariscono nelle più estreme condanne.
“Penso che lei (Rubayat Hossain) possa essere denunciata alle autorità come una anti-stato, anti-nazionalista, anti-awami ( Awami League è il partito di governo in Bangladesh, nda), pro-pakistan, pro-india, anti-comunista e addirittura come anarchica anti Davos” recita l’autore del blog Realtime Bangladesh.
Tuttavia la giovane regista, ricca figlia di un personaggio politico molto influente, non ha di che lamentarsi. Il suo primo lungometraggio sta ricevendo molti apprezzamenti all’estero e negli auditorium di prestigiosi festival internazionali.
Resta però da chiarire un malizioso sospetto: poiché Meherjaan non è mai stato ufficialmente censurato e poiché la rampolla non manca di agganci politici e pecuniari, è plausibile seppur perversa la possibilità che lei stessa abbia fatto ritirare il film dal mercato indigeno per portarlo automaticamente alla ribalta nel nostro primo mondo.
*Carola Lorea, classe 1987, si è laureata all’università di Studi Orientali di Roma e vive con un piede in Italia e l’altro in India. E’ maldestra, testarda e vegetariana. Attualmente svolge una ricerca di dottorato sulla letteratura esoterica in lingua bengali. Ama le ricette culinarie e gli strumenti musicali improbabili e sta lavorando alla pubblicazione di un dizionario bilingue italiano-bengali.
[Foto credit: unobirampur.gov.bd]