Iran, l’attacco di Trump visto (e condannato) dalla Cina

In Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Pechino potrebbe chiedere a Teheran di non chiudere lo Stretto di Hormuz, ma lo farà a modo suo, non seguendo le richieste di Rubio. Il neo presidente sudcoreano e il premier giapponese cancellano il viaggio all’Aja

È facile iniziare una guerra, ma è difficile porvi fine. Dalla Cina, arriva un messaggio: pensare che il raid di Donald Trump contro l’Iran resti un episodio isolato sarebbe utopistico. Un avvertimento agli Stati uniti, ma anche agli stessi cinesi e agli “amici” stranieri di Pechino, soprattutto quelli che si chiedono come mai non arrivi un sostegno più diretto a un partner come Teheran. La Cina non ha alcuna intenzione di restare impantanata in avventure belliche, specialmente se considerate non vitali e se rischiano di farsi inimicare una fetta di comunità internazionale.

La condanna nei confronti degli Usa è però assai netta. Dalle Nazioni unite, l’ambasciatore Fu Cong ha accusato l’America di aver “violato gli scopi e i principi della Carta dell’Onu” colpendo siti sotto la salvaguardia dell’AIEA. Il bombardamento statunitense, ha affermato, “mette a rischio la stabilità di un’intera regione e dell’economia globale”. Durante la riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza, Pechino ha proposto con Russia e Pakistan una bozza di risoluzione che chiede un cessate il fuoco immediato, la protezione dei civili e l’impegno nei negoziati. “L’Iran è stato danneggiato, ma anche la credibilità degli Stati uniti è stata danneggiata, sia come paese che come partecipante a qualsiasi negoziazione internazionale”, ha attaccato Fu.

Sui media cinesi, i toni sono ancora più espliciti: si parla di “imperialismo americano” di “precedente gravissimo” nell’uso della forza per risolvere controversie nucleari, senza passare dal multilateralismo. Diversi analisti mettono peraltro in dubbio l’efficacia dell’operazione di Washington: le strutture sotterranee di Fordow, Natanz e Isfahan sarebbero difficili da distruggere con un solo attacco, anche con bombe penetranti. Editoriali del tabloid nazionalista Global Times evocano invece lo spettro di Chernobyl, temendo fughe radioattive dagli impianti colpiti.

Dal governo cinese, che ha evocato oltre 3500 cittadini da Iran e Israele, non arrivano conferme sulla possibile visita del ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, reduce dall’incontro di ieri con Vladimir Putin a Mosca. Se la sua condanna è netta, è anche perché la Cina ha interessi vitali in gioco. A marzo 2025 ha importato quasi 2 milioni di barili di petrolio al giorno da Teheran, approfittando di sconti dovuti alle sanzioni occidentali. Un blocco dello Stretto di Hormuz metterebbe a rischio oltre il 20% del traffico mondiale di petrolio, con effetti rilevanti anche su Pechino. Il recente completamento della linea ferroviaria Cina–Iran, parte della nuova Via della Seta, offre una rotta commerciale terrestre parzialmente alternativa, ma non certo sostitutiva delle rotte marittime per il petrolio. Una guerra prolungata in Medio oriente potrebbe far lievitare i costi energetici, destabilizzare le rotte commerciali e minacciare l’afflusso di merci cinesi verso l’Europa. Ecco perché il segretario di Stato americano, Marco Rubio, ha chiesto alla Cina di “usare la sua influenza” per chiedere all’Iran di non chiudere lo stretto. Richiesta giudicata irricevibile da Pechino, non intenzionata a risolvere “gratuitamente” un problema creato dagli Stati uniti. Eppure, è probabile che la Cina lasci intendere all’Iran di non condividere una chiusura. “Ma lo farà a modo suo”, dice al New York Times Wang Yiwei, direttore dell’Istituto per gli affari internazionali dell’università Renmin. Tradotto: dietro le quinte, dove già in passato è stato sconsigliato il “suicidio energetico”.

Pechino intravede però anche qualche opportunità. L’impegno militare statunitense in Medio oriente può ridurre la pressione sul Pacifico, offrendo alla Cina maggiori margini di manovra. Lee Jae-myung, presidente della Corea del sud, e Shigeru Ishiba, premier del Giappone, hanno cancellato la loro presenza al summit Nato all’Aja. Oltre alle scuse della crisi internazionale e degli appuntamenti di politica interna (in Giappone si vota il 20 luglio), c’è l’insoddisfazione per le pressanti richieste di aumentare esponenzialmente le spese di difesa, nonché il timore per lo spostamento di diversi mezzi militari americani dal Pacifico al Medio oriente. Segnali di sfilacciamento del sistema di alleanze in Asia orientale.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]