Il 28 febbraio le città indiane si sono svegliate deserte: effetto surreale dello sciopero nazionale più grande della storia indiana, con oltre 100 milioni di adesioni. Serrande abbassate ed uffici chiusi in tutto il Paese con parziale eccezione di Calcutta, dove Mamata Banerjee ha mostrato i muscoli ai sindacati.
Lo sciopero nazionale di ieri in India ha tutte le carte in regola per entrare nella storia.
Per la prima volta dall’Indipendenza del 1947, tutte le principali sigle sindacali della Federazione indiana si sono unite incrociando le braccia per una giornata intera in svariati settori, dai trasporti alle banche fino all’istruzione, protestando contro le “politiche neo-liberiste” del governo Singh.
In India ci sono 11 sindacati “riconosciuti” dal governo, uno status che si guadagna superando i 400mila iscritti, ma la costellazione delle associazioni per la difesa dei diritti dei lavoratori è formata da altri 5000 micro-sindacati minori.
Le cifre sono impressionanti: secondo fonti ufficiali, il 28 febbraio oltre 100 milioni di lavoratori hanno aderito al bandh, sciopero in hindi.
I lavoratori indiani chiedono al governo un minimo salariale di 10000 rupie al mese (poco più di 150 euro) contro le 3000 rupie garantite attualmente in alcuni stati, l’abolizione dei contratti a tempo determinato – stabilizzando oltre 5 milioni di lavoratori – il rispetto delle leggi sul lavoro, punizioni più severe per i trasgressori, la creazione di un fondo nazionale di previdenza sociale che copra tutti i lavoratori e la rinuncia, da parte del governo, di proseguire nella privatizzazione di aziende statali come la Oil & Natural Gas Corp., la Bharat Heavy Electricals e la Steel Authority of India.
Sulla stampa indiana si legge però di una protesta ad ampio respiro contro inflazione, corruzione, aumento dei prezzi, libero mercato, disoccupazione. Una sorta di sfogo della classe medio-bassa, che ha accusato il colpo della crisi economica importata a forza dall’Occidente
Durante il congresso annuale dei sindacati indiani, tenutosi a metà febbraio alla presenza del primo ministro Singh, i delegati avevano cercato di aprire un tavolo delle trattative col governo, ma secondo Gurudas Dasgupta, segretario generale dell’All India Trade Union Congress – sindacato storico legato al Partito comunista indiano – marxista (PCI-M) – la risposta dell’esecutivo è stata insoddisfacente.
Meno di due settimane dopo, da Delhi a Bangalore, tutte le metropoli indiane si sono svegliate in un clima surreale: strade deserte con taxi e riksha fermi lungo i marciapiedi, serrande abbassate, trasporto pubblico ridotto al minimo. Per strada solo bande di ragazzini con le loro mazze da cricket, padroni delle strade che qualsiasi altro giorno dell’anno sarebbero state brulicanti di auto strombazzanti, venditori di chai che sbraitano sui loro carretti, autobus carichi oltre l’immaginabile.
L’India caotica per antonomasia per 24 ore ha lasciato spazio ad un panorama quasi post-nucleare: impossibile, anche nelle campagne, trovare un banco della verdura aperto o un tabaccaio per rifornirsi di bidi, le tipiche sigarette indiane avvolte in foglie di tendu.
Tutti chiusi in casa in una serrata poco rumorosa, forse anche a causa del match di cricket della nazionale indiana, che in Australia ha sbaragliato la selezione dello Sri Lanka.
I disagi maggiori si sono registrati nello stato meridionale del Kerala, roccaforte comunista, a Delhi, dove però i mezzi pubblici hanno garantito il servizio minimo, e a Mumbai, la capitale finanziaria del Paese, dove l’adesione nel settore bancario è stata quasi totale.
Diverso l’esito del bandh a Calcutta, dove la protesta ha marciato a due velocità a causa della presa di posizione della chief minister Mamata Banerjee.
Alla vigilia dello sciopero in tutti gli uffici pubblici della capitale del Bengala Occidentale è girata una circolare del governo locale in cui si intimava ai dipendenti pubblici di “non aderire allo sciopero”: eventuali defezioni non solo avrebbero fatto perdere lo stipendio della giornata, ma sarebbero state considerate come “interruzione del servizio pubblico”, risultando in un azzeramento dello stato di anzianità, dei bonus e degli scatti per la promozione di grado.
Un ricatto che ha fatto urlare allo scandalo i sindacati locali e gli esponenti del PCI-M, al governo nel Bengala Occidentale per 34 anni e fautori, secondo Mamata, di una “cultura dello sciopero” più che deleteria per l’economia di uno degli stati più popolosi dell’India.
La minaccia di Mamata ha dato i suoi frutti: secondo i dati pubblicati oggi sulla stampa nazionale, nel Bengala Occidentale gli uffici pubblici e governativi hanno registrato una presenza tra il 70 e il 90%. I ritardi dei voli all’aeroporto Netaji sono stati nella norma, mentre i disagi nel trasporto ferroviario sono stati minimi, imputabili a ritardi accumulati fuori dalla giurisdizione della donna forte della politica indiana.
Il governo locale, inoltre, ha dislocato 10mila poliziotti per tutta la capitale, pronti a difendere il regolare traffico di autobus governativi da picchetti violenti.
“Non mi sono mai presentato a lavoro durante uno sciopero – ha dichiarato un impiegato del dipartimento del Welfare del Bengala Occidentale al Telegraph – ma questa volta sono venuto a causa delle minacce del governo. Non voglio mettere a repentaglio la mia carriera”.
Per paura che eventuali disagi al traffico rendessero impossibile recarsi a lavoro, molti dipendenti pubblici hanno preferito non rischiare, fermandosi a dormire direttamente in ufficio.
Fuori dai palazzi del governo pieni di lavoratori ligi al dovere, le strade di Calcutta rimanevano deserte: non avendo una carriera da statale da mettere a repentaglio, i privati e gli studenti hanno aderito in massa allo sciopero nazionale, in gran parte barricandosi in casa per paura di sommosse violente e scontri tra militanti del PCI-M e del Trinamool Party della Banerjee, episodi di ordinaria amministrazione durante la lunghissima reggenza comunista interrotta nel 2011 dalla vittoria alle urne di Mamata.
I negozianti in particolare hanno tirato giù le serrande per evitare di subire danni ai propri locali che, senza assicurazione, molti non sarebbero stati in grado di ripagare.
Una scelta oculata, visto che in alcune zone di Calcutta si sono verificati scontri tra sostenitori del Left Front – coalizione di sinistra battuta alle ultime elezioni del 2011 dal Trinamool – e attivisti del partito di Mamata: i primi tentavano di picchettare stazioni degli autobus e della metropolitana, i secondi presidiavano le zone a rischio, difendendo lo svolgimento regolare dei trasporti voluto dalla chief minister.
In attesa di una risposta del governo centrale di Delhi, molto preoccupato dalle previsioni di crescita intorno al 7% contro il 9% auspicato, l’unica a cantare vittoria sui giornali, oltre ai sindacati, è proprio Mamata Banerjee: “Nel Bengala Occidentale ieri è regnata la pace – ha spiegato al The Hindu – e chi crede in una politica spicciola, distruttiva e ostruzionista dovrà pensarci dieci volte prima di indire un altro sciopero”.
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