India – Taj Mahal Foxtrot: il jazz in India

In by Simone

Recensione del libro di Naresh Fernandes (in inglese) che ripercorre l’epoca d’oro del jazz in India. Dai ghetti di New Orleans alla Mumbai dei Sahib britannici fino a Bollywood, trent’anni di storie e aneddoti jazz nel subcontinente indiano.
Durante il periodo che va dal 1935 al 1965, trentennio storicamente fondamentale per l’India intera, nel quale accaddero eventi estremamente rilevanti in politica, industria, architettura e cultura, a Bombay si sviluppò una sorta di Jazz Age.

Taj Mahal Foxtrot di Naresh Fernandes ne ripercorre le tappe attraverso i protagonisti e gli scenari, offrendo anche l’immagine di Bombay mentre diventava la Maximum City che conosciamo oggi.

Se il jazz era originariamente la musica dei poveri di New Orleans, in India, almeno inizialmente, fu invece la musica dei Sahib, dei colonizzatori britannici. Eppure, a volte fece da sfondo a momenti che dovevano diventare un punto di riferimento per tutti, nella storia indiana e di Bombay.

Per esempio, si stava suonando jazz nella sala da ballo dell’hotel Taj la notte del 14 agosto 1947. Allo scoccare della mezzanotte, quando l’India divenne un paese libero, le orchestre dirette da Micky Correa e da Chic Chocolate intonarono Jana Gana Mana, l’inno nazionale indiano.

Ma il jazz non rimase a lungo un passatempo delle élite. Bollywood lo doveva presto incorporare tra i suoi generi, portandolo così alle masse. Tra coloro che per primi intuirono il potenziale popolare del jazz in India, figurano di diritto l’attore Bhagwan e il compositore C. Ramchandra.

Nel 1951, il massiccio Bhagwan, noto per i suoi passi di danza minimalisti ma ritmici, scrisse, produsse, diresse e interpretò il film Albela. Ramchandra compose per l’opera Shola jo Bhadke Dil Mera Dhadke. Canzone e film, nel quale Chic Chocolate recita un cameo, ottennero un grande successo.

Fernandes racconta: "Sono rimasto affascinato dal modo in cui questa musica, che nasce nei ghetti di New Orleans, divenne la musica delle élite in Asia, per tornare rapidamente ad essere musica popolare grazie ai film."

La maggior parte dei musicisti che arrivava in India era afro-americana. Ma qui godevano di una sorta di immunità, rispetto ai pregiudizi razziali della classe dominante e così a Bombay si divertivano parecchio. "Affrontavano ben più dure discriminazioni negli Stati Uniti", spiega Fernandes.

"A Bombay, invece, venivano ospitati in grande stile dall’Hotel Taj, che forniva loro ogni sorta di cibo e un seguito di servitori. Quando chiesero a Teddy Weatherford, musicista di colore, come si era trovato nella Bombay coloniale, lui rispose: Beh, a noi bianchi ci trattano benissimo! "

Nemmeno le ragazze scarseggiavano per loro, soprattutto tra quelle appartenenti alla comunità anglo-indiana. Leon Abbey, che portò a Bombay la prima orchestra ‘all-negro’ nel 1935, fece in tempo ad incarnare il classico stereotipo del sex symbol del mondo della musica, con abiti appariscenti, macchinone e pupe tutt’intorno.

Il libro cita un articolo di Ali Rajabally, che recensiva il jazz di Bombay tra il 1930 e il 1940: "[Abbey] era vestito come un vero dandy: abito in seta cinese, camicia elaborata, scarpe bianche in pelle di cervo, cravatta d’argento e i suoi crespi capelli scintillanti di brillantina. Verso sera, si è visto lui e il suo seguito planare maestosamente lungo la Queen Road in direzione del Taj, tutti a bordo della sua enorme Isotta Fraschini argentata, con la capotte abbassata."

Fernandes sfata anche i miti riguardanti un passato indiano ben più roseo del presente. La forbice tra ricchi e poveri esisteva anche allora, ampia ed evidente come lo è adesso.
Il giornalista Dosoo Karaka – che in Gran Bretagna diventò il primo indiano a presiedere The Oxford Union – all’epoca scrisse del contrasto percepito per strada dopo aver visto uno spettacolo di Leon Abbey al Taj: "Fuori, il mondo non è caldo: fuori, è umido e appiccicoso; fuori, la constatazione dell’esistenza dei vagabondi soli nella notte, delle donne mendicanti coi seni mezzo divorati e la povertà sui marciapiedi, mi fa rabbrividire."

In sintesi, attraverso la puntigliosa ricerca e la narrazione dell’era del jazz di Bombay – ma non solo – Fernandes racconta una città curiosa, che cresceva fiduciosa e che, almeno nelle aspirazioni, tendeva ad includere. "Sì, allora era una città rarefatta, dove i poveri non hanno mai vissuto bene. Ma l’obiettivo della città era senza dubbio quello di accogliere ed integrare. Adesso, invece, stanno costruendo un orrendo edificio alla fine della strada dove vivo io, sul cui cantiere campeggia un enorme cartellone che dice così: Sei abbastanza ricco per vivere qui?" conclude l’autore.

Taj Mahal Foxtrot prende nome dall’omonimo brano composto e registrato nel 1936 da Crickett Smith and his Symphonians, una formazione americana che era stata scritturata dalla direzione dell’Hotel Taj Mahal per la stagione estiva di quello stesso anno.

Se non potete procurarvi il libro, il ricchissimo sito dedicato all’opera di Fernandes offre comunque molti spunti, brani e immagini dell’Era del Jazz in India.

[Anche su GuidaIndia] [Foto credit: caravanmagazine.in]
*Alessandra Loffredo è fondatrice e redattrice di GuidaIndia