Lo scorso 11 novembre, in India si è festeggiato Diwali, la «Festa delle Luci», nella trasposizione italiana che appiattisce il significato di qualsiasi festività diversa dal Natale (cosa si fa a Diwali? Si accendono le candele. Allora la chiamiamo Festa delle Luci. Cosa si fa a Holi? Ci si lanciano addosso i colori. Allora la chiamiamo «Festa dei Colori»). E come ogni anno, specialmente chi si trova lontano dall’India, se ne approfitta per inondare i social network di lumini e foto evocative di una certa spiritualità indiana, rimarcando la vicinanza emotiva con l’India e la sua cultura.Tutto bello e tutto giusto, forse lo farei anche io se al posto di trovarmi nel mezzo del macello di New Delhi stessi soffrendo, in Italia, di quel mal d’India che ci prende tutti prima o poi, volenti o nolenti.
Quello che segue non è per voi, che ci augurate buon Diwali da lontano e ci invidiate. Quello che segue è per tutti coloro che hanno la fortuna di passare il Diwali in India per i quali, in larghissima maggioranza, il corrispettivo simbolico del nostro Natale rimane sempre e comunque una stratosferica, fotonica, devastante prova di resistenza.
Abbracciamoci, non siamo soli. Dietro la retorica del «vogliamoci tutti bene è Diwali quant’è bella l’India» esiste un esercito di odiatori professionisti, temprati da anni di candeline accese, puja al fianco della nonna, abboffate di dolci in famiglia: si chiamano «giovani indiani urbani».
Nei giorni precedenti a Diwali a New Delhi succedono alcune cose. La prima: i milioni di persone che popolano la metropoli, in un tacito accordo sancito dalla tradizione, decidono di uscire tutti, simultaneamente, per approfittare delle grandi offerte che il mercato della compravendita indiana mette sul piatto per incentivare il consumo. Se di solito gli indiani che spendono sono quelli della classe medio alta, che se lo possono permettere, prima di Diwali lo shopping diventa uno status symbol panindiano. Comprano tutti, qualsiasi cosa, in un moto collettivo di spinta della locomotiva economica indiana.
Ora, lo shopping compulsivo spinge a una compresenza nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone in zone circoscritte della città, trasformando un giro per i mercati o negozi della capitale in uno scontro corpo a corpo con le depositarie delle tecniche marziali più letali da sfoderare durante il processo di acquisto di beni: le auntie indiane.
Sono donne darwinianamente predisposte alla mischia in spazi ristretti: tarchiate, baricentro basso, dotate di cuscinetti di adipe – cresciuti in anni di protezione del focolare domestico – a schermare gli organi vitali e i centri nevralgici del corpo, compensate da una spigolosità sapientemente occultata di gomiti e tacchi, armi brandite per farsi largo tra folle di simili auntie in uno scontro all’ultimo sangue per la scarpa più scontata, il servizio da tavolo in vetro "ultima offerta", il sari più conveniente nel rapporto prezzo / pajette. Da sfoggiare ancora un po’ inamidato (così si vede che è nuovo nuovo, pezzenti!) la sera di Diwali.
Al maschio, silente accompagnatore di compere in una temporanea e illusoria sospensione della piramide patriarcale, rimane la responsabilità degli acquisti di carattere tecnologico: frigorifero, televisore al plasma, gingilli elettronici per la cucina – che si limiterà ad acquistare, senza mai utilizzarli – e smartphone. Secondo lo stesso processo che vorrebbe i videogiochi violenti come sfogo digitale della rabbia repressa – seppur atavica – dell’uomo, la furia dell’acquisto (probabilmente per scongiurare gravi problemi di ordine pubblico) negli ultimi anni viene incanalata nel campo di battaglia delle offerte dell’e-commerce: uomini più o meno giovani si battono a suon di click e appostamenti notturni per non perdere l’attimo infinitesimale utile al vittoria su altre migliaia di aspiranti consumatori, bruciati sul tempo nell’accaparrarsi i must del Diwali.
Per dare una misura della frenesia d’acquisto online è utile ricordare che l’anno scorso Flipkart, tra i siti di e-commerce più noti nel paese, nel bel mezzo della sua campagna di promozione per Diwali ha dovuto sospendere le vendite causa sovraccarico dei server. Senza contare che gran parte dei prodotti in offerta (fino al 99 per cento di sconto) risultavano esauriti già dalle 8 di mattina del 6 ottobre, primo giorno della Diwali Extravaganza 2014. Quest’anno pare sia andata meglio.
Terminati i preparativi, arriva il gran giorno di Diwali. Oggi. Un giorno in cui l’amore genitoriale riempie come un fiume in piena l’esistenza di milioni di indiani bloccati tra la presa di coscienza dell’effimera libertà che li solleva temporaneamente dagli obblighi familiari – specie gli universitari e i lavoratori ancora non sposati – e il momento nel quale diventeranno loro stessi gli estensori dei medesimi obblighi. Le donne, diligentemente istruite dai genitori del marito, nel caso non infrequente di famiglia allargata.
Lontano dal giudizio severo della società che li circonda, davanti a una presenza estranea all’indianità tradizionale – come un occidentale maschio quasi trentenne – o nel circolo ristretto degli amici di bevute, alla domanda «allora stasera magari facciamo qualcosa per Diwali?» la risposta «no, DEVO stare a casa coi miei» è accompagnata da una luce opaca negli occhi, l’ombra della rassegnazione.
Tutti coloro in grado di sopravvivere all’iperglicemia di una cena dove la quantità di dolcetti a fine pasto – estremamente dolci e melassosi, come quasi tutti i dolci di manifattura indiana – in presenza di un sistema carcerario davvero umano e compassionevole dovrebbe dare diritto immediato a uno sconto di pena o alla sospensione per buona condotta, sempre per l’usanza di misurare la gioia di un paese non in sorrisi ma in decibel, guadagnano le postazioni a cielo aperto e iniziano a sparare fuochi d’artificio e petardi di varia intensità e grandezza.
Secondo le leggi attualmente vigenti a New Delhi, la soglia massima per commercializzare dei petardi equivale a 145 decibel. La misurazione scientifica, come solito, ci dice poco. Aiutiamoci quindi con questa tabella della Purdue University che descrive le diverse origini di rumori, mettendoli in ordine di decibel, con accanto i possibili effetti dannosi per la salute.
Secondo quelle innocenti educande dell’università americana, dai 70 decibel in su i rumori sarebbero «fastidiosamente alti per qualcuno». Non per gli indiani, che con l’esplosione di un petardo come si deve si posizionano precisamente a metà tra i 140 decibel udibili dal ponte di un aereo ai 150 udibili a 25 metri di distanza da un jet in fase di decollo (esperienza che dovrebbe valere, per la Purdue University, la rottura del timpano).
Quando questa notte, ammesso che riesca a tornare a casa, sarò blindato in camera circondato da esplosioni di gioia del popolo indiano – che già da alcuni giorni mi prepara con piccoli esempi di gioioso fastidio fatti esplodere dalla sezione di adolescenti del quartiere sotto il mio balcone – solo allora, intriso di spirito di Diwali, inizierò a rispondere a tutti gli auguri di buon Diwali che mi avete fatto pervenire.
[Scritto per East online]