La visita di Hillary Clinton in India doveva convincere Delhi a diminuire le importazioni di petrolio iraniano. Ma la risposta del governo è stata abbastanza fredda, mentre una missione commerciale iraniana nelle stesse ore discuteva a Delhi su come aggirare le sanzioni Usa. E hanno trovato un modo, adottato anche dai cinesi.
Dopo un complicato soggiorno cinese e una visita lampo in Bangladesh, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha concluso il suo tour asiatico in India.
Missione da portare a termine: convincere Delhi a diminuire le importazioni di petrolio iraniano, allineandosi al resto degli alleati americani impegnati nell’esercitare pressione su Teheran.
Mission accomplished? Non proprio.
Secondo una legge varata ad hoc da Washington, gli Stati Uniti dal 28 giugno applicheranno una serie di sanzioni economiche contro istituti di credito di paesi che continueranno a comprare petrolio dall’Iran.
Nella lista dei sorvegliati speciali l’India è in compagnia di altri undici stati, tra cui Cina, Turchia, Corea del Sud e Sudafrica. Se entro il 28 giugno gli Usa non si riterranno soddisfatti dei progressi effettuati dai suddetti paesi, scatteranno le multe, rischio di essere sbattuti fuori dal sistema bancario americano compreso.
Così almeno dicono a Washington, sapendo che dal Brasile al Giappone, dal Lussemburgo alla Mongolia, chiunque voglia comprare energia deve avere le casse piene di dollari, la valuta convenzionale dalla Seconda guerra mondiale in avanti grazie agli accordi presi nel 1944 a Bretton Woods. In particolare per il petrolio, quotato in dollari al barile, appunto.
Le sanzioni sono stabilite dal Comprehensive Iran Sanction, Accountability and Divestment Act (CISADA), controfirmato da Obama nel 2010, che prevede multe e ripercussioni sugli stati che investiranno più di 20 milioni di dollari all’anno in attività che “contribuiscano a migliorare la capacità dell’Iran di sviluppare il proprio settore petrolifero”.
Delhi ha già abbassato le importazioni energetiche da Teheran del 12 per cento: ora il petrolio iraniano copre solo il 9 per cento dei barili acquistati da un’India fortemente dipendente dall’estero per soddisfare il proprio enorme fabbisogno energetico.
Le importazioni, secondo il Wall Street Journal, stanno crescendo di 10 milioni di tonnellate all’anno, il 60 per cento delle quali viene fornito dai paesi del Golfo.
“Accolgo positivamente i progressi indiani nel diminuire l’acquisto di petrolio dall’Iran e spero questi progressi continuino” ha commentato la Clinton durante la conferenza stampa con la sua controparte indiana, il ministro degli Esteri SM Krishna, suggerendo a Delhi di diversificare l’approvvigionamento rivolgendosi a “stati amici” come Arabia Saudita – dalla quale l’India già importa il 18 per cento del suo petrolio – e Iraq.
Ma Krishna, al posto di annunciare nuovi tagli, ha preferito elencare pubblicamente le ragioni che spingono l’India a fare affari con gli eredi dell’impero persiano: legami culturali e finanziari, crescita del fabbisogno, sei milioni di indiani emigrati in Iran. Teheran, insomma, non è un partner facilmente scaricabile.
Un messaggio trasversale indirizzato agli Usa, alleati storici – strano ma vero – del Pakistan e visti ancora oggi dalla vecchia guardia della classe dirigente indiana, figlia della politica del non-allineamento nehruviana, come una potenza della quale diffidare.
Ma anche parole di conforto per la delegazione commerciale iraniana guidata dal presidente della camera di commercio Yahya Al Eshagh, che nelle stesse ore sorseggiava chai e sgranocchiava biscotti nella sala conferenze di un lussuoso hotel di Delhi.
Tema del meeting: discutere con la controparte indiana sui beni che Delhi potrebbe vendere all’Iran per riappianare la bilancia commerciale con Teheran e non incorrere nelle temute sanzioni americane.
D’altronde, fatta la legge trovato l’inganno.
Per aggirare le sanzioni e non perdere un partner commerciale molto conveniente, l’Iran ha acconsentito a vendere petrolio all’India accettando il 45 per cento del pagamento in rupie, valuta nazionale indiana debolissima ed utilizzabile esclusivamente all’interno dei confini dell’Unione.
Come efficacemente descritto da Jeff Glekin per Reuters Breakingviews: “E’ come un buono acquisto che Teheran può usare solo in negozi indiani”.
Il restante 55 per cento sarà saldato barattando i barili iraniani con beni di consumo indiani come tè, riso e prodotti farmaceutici. Nessun dollaro, nessun problema.
Per Delhi si tratta di una mossa vincente che, in un sol colpo, porta almeno tre benefici concreti: dà un impulso alle esportazioni e abbassa il deficit commerciale con l’Iran; diminuisce l’utilizzo del dollaro da parte di Delhi, aumentando le riserve di valuta americana nelle casse dello stato; aumenta il valore della rupia, rendendola per la prima volta una moneta di scambio al di fuori del subcontinente indiano.
Secondo lo stesso schema, dice il Financial Times, l’Iran dal 7 maggio accetta pagamenti in renminbi dalla Cina, l’altro gigante asiatico nella lista nera di Washington che ogni anno muove sull’asse Pechino – Teheran tra i 20 e i 30 miliardi di dollari.
Se questa tattica dovesse funzionare – ed è lecito chiedersi perché non dovrebbe – il margine di contrattazione americano nella regione rischia di crollare drasticamente: un bel grattacapo per la politica estera di Washington.
[Foto credit: alarabiya.net]