In India il digiuno è tuttora uno strumento politico di grande impatto mediatico. Ce lo ricorda GD Agrawal, ex docente dell’Indian Institute of Technology di nuovo in sciopero della fame e della sete per proteggere il sacro Gange dall’inquinamento.
Morir per delle idee è passato di moda; lasciarsi morire ha ancora il suo fascino. In India lo sciopero della fame come strumento di protesta affonda le sue radici nell’antichità così remota da perdersi nell’evidenza mitologica: quando il virtuoso principe Rama fu costretto all’esilio nella foresta, il fratello Bharata lo supplicò di fare ritorno e di regnare sulla città di Ayodhya mediante un prolungato e sofferto digiuno (Ramayana di Valmiki, libro secondo, V-IV sec. a.C.).
Da allora, upavaas – il digiuno, momento di purificazione rituale e metodo di auto-controllo estremamente importante nel mondo hindu, jainista e buddhista – è stato periodicamente riciclato in qualità di efficientissimo mezzo di lotta non-violenta.
Il più celebre popolarizzatore di tale stratagemma nel programma del movimento satyagriha fu Mohandas Gandhi, che rifiutò l’assunzione di cibo in svariati momenti della lotta per l’Indipendenza, minacciando spesso l’auto-annientamento in caso non venissero soddisfatte di volta in volta le sue richieste di affrancamento dal regime britannico, collaborazione intercastale, miglioramento delle condizioni sociali degli harijan – intoccabili, cooperazione pacifica fra hind e musulmani.
A prescindere dal rinomato Mahatma, furono moltissimi i freedom fighter che fecero ricorso al digiuno sino alla morte per dare ampia risonanza alle proprie cause: Jatin Das e Bhagat Singh, ad esempio, fecero valere le proprie ragioni dinnanzi al severo raj britannico dopo uno sciopero della fame di 116 giorni che vinse il record mondiale superando il traguardo dei repubblicani irlandesi nel 1920.
Fra i successivi prosecutori della lotta a stomaco vuoto, Baba Ramdev, il guru dalla discutibile ascesi, e Anna Hazare, consci del potere della fame come leva sull’opinione pubblica indiana, hanno raggiunto la più vasta eco mediatica, appellandosi al digiuno di massa per contrastare corruzione e fondi neri della classe politica.
Certo non tutti gli upavaas raggiungono i risultati desiderati, anzi, nella lunga storia della lotta affamata nel subcontinente, qualcuno ci ha anche lasciato le penne. Il rivoluzionario Potti Sriramulu (1901-1952) ad esempio, non superò il 58esimo giorno di digiuno con cui contava di rendere la prosperosa città commerciale di Madras la capitale del nuovo stato dell’Andhra Pradesh, la regione dei parlanti telugu.
Parlando di più recenti martiri della disidratazione, è passata inosservata la scomparsa di Swami Nigamananda (13 Giugno 2011), il sannyasi che donò la propria vita alla difesa del fiume Gange, protraendo sino al 115esimo giorno il suo tragico digiuno con cui richiedeva alle autorità governative di fermare le continue cave minerarie che aggrediscono le rive del sacro corso d’acqua, dichiarato nel 2008 fiume nazionale dell’India.
Nazionale o meno, pare che i governi regionali di Uttar Pradesh e Uttarkhand, la regione che ospita la sorgente del maggior fiume del subcontinente, non abbiano portato a termine alcuna delle iniziative con cui promettevano di prendersi cura di Sua Santità Ganga alle prese con siccità, inquinamento, impianti idroelettrici, dighe e miniere illegali.
Al contrario, sembra che i 15.000 crore (= 150.000.000.000) di rupie destinati a finanziare la protezione delle sacerrime acque da parte del National Ganga River Basin Authority siano fluttuati nel nulla.
Riverito da miliardi di fedeli, il Gange – personificato nella dea Ganga del pantheon hindu, accompagnata dal suo veicolo animale a metà fra pesce e coccodrillo – scese direttamente dal Paradiso minacciando di distruggere il mondo con il suo flusso dirompente.
Shiva lo accolse fra la sua densa chioma salvando l’umanità dalla catastrofe e permettendo al corso d’acqua di scorrere indisturbato fra l’Himalaya e il Golfo del Bengala. La purezza delle sue acque lava i devoti dai frutti delle loro azioni impedendo al karma di trasferirli in una nuova rinascita terrestre.
La purezza testuale e rituale attribuita al Gange deve ora far fronte all’urbanizzazione massiccia e alla crescente richiesta di energia di un Paese in via di sviluppo.
L’instancabile protesta contro la desacralizzazione del Gange è oggi protratta da GD Agrawal, settantanovenne docente dell’Indian Insitute of Technology e decano dell’ingegneria ambientale, da decenni impegnato nella salvaguardia del fiume e dei suoi affluenti.
Recentemente iniziato alla vita del sannyasi e ribattezzato Swami Swaroop Sanand, ha intrapreso il suo quarto sciopero della fame “fino-alla-morte” il 14 gennaio, chiedendo al governo di intervenire su tre problematiche focali: la presenza di dighe a regolari intervalli nel corso superiore del fiume e il conseguente impoverimento del corso e degli affluenti; la diversione del 90% delle acque del corso principale in canali laterali; l’incessante immissione di rifiuti provenienti dalle aree urbane costeggianti il corso del Gange.
Con le sue ultime proteste non-violente Agrawal ha avuto successo nel bloccare la realizzazione del progetto idroelettrico sull’affluente Bhagavati, così che il corso del fiume fosse lasciato inalterato almeno dalla sorgente – Gangotri – sino ad Uttarkashi.
La sua protesta sottolinea l’urgenza di legiferare affinché le azioni volte al deterioramento del fiume siano perseguibili legalmente in quanto offesa ad un simbolo della nazione, nonché ad una fonte di vita che attraversa cinque Stati regionali (dodici, se si considerano anche i maggiori affluenti).
Dopo oltre due mesi di irremovibile digiuno, il 19 marzo Agrawal è stato trasportato d’urgenza in elicottero dall’ospedale della Benares Hindu University all’Istituto di Scienze Mediche di Nuova Delhi dopo un attacco cardiaco.
Solidali alla sua causa, tre membri del comitato National Ganga River Basin Authority si sono già dimessi dal loro incarico e attendono salvifiche promesse da parte del Ministero dell’Ambiente.
Intimorito dal suo stato di salute, il governo centrale ha promesso al sadhu-attivista di prendere seri provvedimenti legali per la protezione del corso gangetico persuadendolo ad interrompere il digiuno il 23 marzo.
Ma le parole non bastano a rabbonire Swami Sanand: le promesse del governo non sono state rispettate e l’ex-ingegnere, ancora debilitato dai precedenti digiuni, ha nuovamente intrapreso lo sciopero della fame e della sete il 2 maggio.
Dopo soli tre giorni, le autorità locali hanno intimato di interrompere la protesta per via delle preoccupanti condizioni di salute. Di fronte al categorico rifiuto, la polizia ha forzatamente trasferito Swami Sanand all’ospedale di Varanasi, dove è attualmente ricoverato per cure intensive.
Anche questa volta, la strategia della fame, forse più violenta di molte altre nel richiamare il senso di colpa e la coercitiva attenzione delle autorità in questione, ha efficacemente portato alla ribalta il nome dell’attivista fra le prime pagine dell’informazione nazionale.
Pronto ad affrontare le estreme conseguenze della tattica autodistruttiva, Swami Swaroop Sanand afferma imperturbabile: “Se muoio io, vi saranno altri a portare avanti la causa”.
Dalle sorti dell’anziano scienziato nelle vesti di un rinunciante resteremo a vedere quanto il governo indiano giudichi impopolare lasciar morire un altro Swami invano.
[Foto credit: newswatch.nationalgeographic.com]