India – Il presidente Mukherjee

In by Simone

L’ex ministro delle Finanze Pranab Mukherjee ha vinto a valanga le elezioni presidenziali. Il volto noto dell’Indian National Congress sarà il tredicesimo presidente dell’Unione Indiana. Dovrà rimboccarsi le maniche per far andare in porto le riforme economiche di cui l’India ha estremo bisogno.
Pranab Mukherjee è ufficialmente il tredicesimo presidente dell’Unione Indiana. Il miglior primo ministro che l’India non ha mai avuto, politico indispensabile: le parafrasi utilizzate dai media nazionali per descrivere il rispetto del quale gode il primo presidente bengalese della storia indiana rendono giustizia all’impressionante carriera politica di Mukherjee.

Figlio di un freedom fighter membro dell’Indian National Congress durante il Raj britannico, Pranab Mukherjee è nato e cresciuto a Mirati, villaggio del Bengala occidentale, in una famiglia di bramini, la casta più alta nel sistema hindu.

Dopo le due lauree in scienze politiche e legge diventa prima giornalista, poi avvocato, fino ad abbracciare la politica nel 1969, eletto alla Rajya Sabha – la camera alta del parlamento indiano – tra le fila del Congress.

E’ l’inizio di un rapporto inossidabile tra Mukherjee ed il partito politico che ha di fatto plasmato la storia dell’India – nel bene e nel male – dalla lotta per l’indipendenza ad oggi: Mukherjee, in più di quarant’anni di carriera politica, ha ricoperto le cariche di ministro delle Finanze (due volte), ministro degli Esteri e ministro della Difesa, oltre ad essere stato vicepresidente della Planning Commission, l’organo governativo che decide la politica economica del Paese, nel turbolente periodo delle riforme economiche degli anni Novanta.

La sua lealtà al partito e le sue indiscutibili capacità non bastarono però ad evitargli la cacciata dal Congress nel 1984, all’indomani dell’assassinio di Indira Gandhi, che Mukherjee considerava la sua mentore. Le trame di palazzo che seguirono il lutto nella dinastia Nehru Gandhi lo misero contro al figlio di Indira, Rajiv Gandhi, che una volta eletto primo ministro lo escluse dal partito, convinto che Mukherjee stesse tramando contro la sua leadership.

Oggi, forse nel buonismo diffuso che caratterizza le celebrazioni del nuovo presidente, l’episodio viene derubricato a colossale malinteso tra i due; una conclusione che giustifica, a posteriori, l’estrema fiducia accordata a Mukherjee da Sonia Gandhi, vedova italiana di Rajiv catapultata nell’agone politico alla guida del Congress per ragioni di stato. O di sangue.

Secondo il complesso sistema di votazioni che caratterizza le presidenziali indiane – dove esprimono le preferenze sia i deputati del governo centrale che quelli dei governi locali – la corsa a Rashtrapati Bhavan, la lussuosa residenza presidenziale di Delhi, ha funzionato da cartina tornasole dello stato di salute di maggioranza ed opposizione.

I due schieramenti, guidati rispettivamente dal Congress e dal Barathiya Janata Party (Bjp), sono ostaggio del voto dei partiti locali, sempre più potenti a livello statale: la ricerca del consenso per individuare un candidato di larghe intese è naufragata nel mezzo dei pessimi rapporti tra Congress e Bjp, dando il via alle macchinazioni degli strateghi più navigati.

Il bazar delle alleanze e delle promesse ha avuto due protagonisti assoluti: Mulayam Singh Yadav, presidente del Samajwadi Party (Sp), e Mamata Banerjee, presidente del Trinamool Congress Party (Tmc) e chief minister del Bengala occidentale.

Mamata, costante spina nel fianco della maggioranza e responsabile dello stop di diverse riforme strutturali dell’economia indiana – ferrovie ed apertura del settore dei supermercati multimarca su tutte – ha continuato a minacciare il Congress, avvertendo che se il candidato della maggioranza fosse stato Mukherjee il suo partito non l’avrebbe votato (e Mukherjee non avrebbe vinto).

Il veto di Mamata aveva aperto la strada ad un candidato super partes, ma Yadav, a sorpresa, ha deciso di sostenere Mukherjee, permettendo al Congress di poter contare sui moltissimi voti dell’Uttar Pradesh (uno degli stati più popolosi dell’Unione), governato proprio dal Sp.

La mossa di Yadav, che fino a quel momento aveva bluffato un appoggio al candidato di Mamata, ha dato il via libera alla candidatura del 76enne ministro delle Finanze, assieme ad una sonora lezione di furbizia alla “regina” del Bengala occidentale: nella moderna politica creativa indiana tutti sono utili, nessuno indispensabile. Prove generali per una battaglia delle alleanze che nelle elezioni del 2014 si farà decisamente feroce e per la quale il camaleontico Yadav, evidentemente, sta già lavorando.

Sullo sfondo, l’opposizione ha confermato la sua pessima condizione attuale: incapace di dettare una qualsivoglia agenda politica concreta, avvelenata da lotte intestine, si è trovata costretta ad appoggiare un candidato esterno davvero poco credibile. Nessuno ha mai creduto alla possibile presidenza di P.A. Sangma, chief minister di Meghalaya di discendenza tribale, un politico categoria pesi piuma costretto a fare da sparring partner ad uno dei nomi storici della politica indiana.

Lo spoglio si è quindi rivelato pura formalità: Pranab Mukherjee ha vinto con quasi il 70 per cento dei voti, prendendo preferenze anche dal Karnataka, roccaforte del Bjp dove si sta consumando una notte dei lunghi coltelli tra i membri del partito, ed addirittura dagli esponenti del Shiv Sena, organizzazione ultra nazionalista hindu legata a doppio filo coi conservatori del Bjp.

Nella mia vita ho ricevuto molto più di quanto abbia dato” ha dichiarato emozionato il neo presidente in una conferenza stampa sconclusionata, quasi schiacciato dalla folla dei militanti del Congress in festa.

Ho ricevuto il compito di proteggere e difendere la costituzione. Spero di essere all’altezza della vostra fiducia” ha spiegato Mukherjee, glissando elegantemente sulle pesanti accuse mosse da Sangma pochi minuti prima, che ha denunciato le pratiche scorrette – ma non illegali, almeno nelle presidenziali – del Congress citando “promesse di pacchetti economici ad alcuni stati in cambio del voto”. Veleni di circostanza che con ogni probabilità finiranno presto nel dimenticatoio.

A differenza della presidenza soft di Pratibha Patil, ininfluente per cinque anni nella dialettica politica indiana, da Mukherjee l’India si aspetta un mandato da mediatore e pacificatore, col compito di guidare una società indiana in profonda crisi d’identità, separata in casa dai propri esponenti politici, verso un futuro che richiederà scelte coraggiose ed inevitabili.

Il vuoto lasciato nel Congress da Mukherjee sarà difficile da riempire: ancora non è chiaro chi sarà chiamato a guidare il Ministero delle Finanze ma, soprattutto, chi possa sporcarsi le mani nelle trattative giornaliere con alleati turbolenti e rimettere periodicamente ordine in una maggioranza politicamente sterile, incapace di partorire – con dolore! – le riforme economiche necessarie per far ripartire il Paese, impantanato in una crescita poco sopra il 5 per cento, molto al di sotto delle aspettative.

Obiettivi che Mukherjee, da figura carismatica e uomo del Congress, non è riuscito a raggiungere.
Ci proverà ora, da uomo dell’India.

[Foto credit: firstpost.com]