Lo scontro militare e retorico tra India e Pakistan in Kashmir colpisce la popolazione civile, che condivide lo stesso destino su entrambi i lati del confine. In India le discriminazioni a carico dei musulmani complicano una situazione già tragica
«Lunga vita al Pakistan», dice all’intervistatore un ragazzo indiano di nome Muhammad Kaif. «E all’India?», gli chiede il giornalista. «Sì, lunga vita all’India» – risponde Muhammad – «lunga vita a tutti. Siamo tutti essere umani, musulmani e indù, allora perché uccidere? Ognuno ha il diritto di vivere, perché dovremmo distruggerli?». L’intervistatore quasi non ci crede, domanda a Muhammad, in quanto indiano di Bihar, se non si vergogni a dire certe cose. «Chi te lo ha insegnato?», gli chiede. «Io ho un cervello», conclude il giovane.
Il video dell’intervista, durata poco più di un minuto, è diventato presto virale sui social nel momento di massima tensione tra India e Pakistan, che da giorni si stavano scambiando bombardamenti, spari e propaganda lungo un confine – quello che divide in due la regione del Kashmir – conteso fin dalla Partition del 1947. Il 10 maggio, dopo settantadue ore di attacchi aerei reciproci e decine di morti su entrambi i lati del confine, Nuova Delhi e Islamabad hanno acconsentito a un cessate il fuoco che potrebbe dare un po’ di respiro alla popolazione civile, da sempre abituata a vivere sospesa tra la fine di una crisi e l’inizio della prossima.
«L’incertezza incombe sempre sulle nostre teste. Chi vive vicino al confine non sa mai se supererà la notte», aveva dichiarato un residente di Uri, nel Kashmir indiano, lo scorso 6 maggio. Il giorno dopo l’India avrebbe attaccato il Pakistan con missili e bombe in ritorsione all’attentato del 22 aprile a Pahalgam (località turistica nella parte indiana del Kashmir) nel quale sono state uccise 26 persone, bersagliate in quanto indù. Ne sono seguiti giorni di bombardamenti reciproci e paura per i kashmiri indiani e pakistani, fino al cessate il fuoco.
Una guerra (anche) di parole
Quella concordata il 10 maggio rischia di essere una pausa fragile e complicata. Già durante le prime ore di tregua India e Pakistan si sono accusati a vicenda di aver violato il cessate il fuoco, che sembra però aver retto all’urto iniziale. Il rapporto tra i due paesi, anche in tempo di pace, è caratterizzato da una sorta di perenne guerra di retorica e narrazioni contrapposte, nella quale Nuova Delhi e Islamabad presentano spesso due realtà che non possono coesistere. Lo hanno reso ancor più evidente questi giorni di guerra vera e di morti, sirene, evacuazioni di massa e panico generale.
L’escalation, intanto retorica, è cominciata lo scorso 22 aprile. L’India ha accusato il Pakistan di aver orchestrato l’attentato di Pahalgam, rivendicato inizialmente da un piccolo gruppo terroristico pakistano, il Resistance Front, che ha poi ritrattato. Se esistono prove che in passato collegavano l’intelligence pakistana ad alcune milizie armate e jihadiste, attive nella regione allo scopo di separare il Kashmir dall’India, al momento non c’è nulla che leghi con certezza Islamabad all’attentato di qualche settimana fa, per cui lo stesso governo pakistano chiede l’istituzione di un’indagine internazionale.
Nuova Delhi, anche per rispondere alla forte pressione dell’opinione pubblica interna, ha però optato per il pugno duro. Oltre a una serie di atti simbolici, l’India ha sospeso unilateralmente il Trattato sulle Acque dell’Indo, l’accordo firmato nel 1960 per regolare la gestione del flusso del fiume tra i due paesi. È una decisione che va contro il diritto internazionale sui trattati e che, come ricorda Dialogue Earth, rischia di avere gravissime ripercussioni sulla vita di tutti pakistani: l’acqua utilizzata per l’agricoltura, in Pakistan, viene quasi esclusivamente dall’Indo e dai suoi affluenti.
Sebbene l’India non abbia i mezzi tecnici per bloccare completamente il flusso del fiume, in queste settimane Nuova Delhi ha già dimostrato di poter ridurre o aumentare la corrente a suo piacimento, con il rischio che questo possa anche generare inondazioni e altri seri problemi di gestione idrica in Pakistan. Islamabad non ha esitato a definirlo un «atto di guerra», ancor prima delle bombe. Che poi sono arrivate.
Il 7 maggio l’esercito indiano ha attaccato con missili e bombe guidate alcuni «siti terroristici» nel Kashmir e nel Punjab pakistani, in quella che ha chiamato “Operazione Sindoor”. Il nome “sindoor” si riferisce alla polvere rossa che le donne indù si applicano sulla fronte per indicare di essere sposate, ed è dunque un chiaro riferimento religioso che sottolinea come il nemico, il Pakistan, sia prima di tutto musulmano.
Gli attacchi indiani hanno provocato oltre trenta morti, decine di feriti e tante incongruenze. Il Pakistan dice che sono state colpite solo aree civili, tra cui tre moschee e una centrale idroelettrica, e ci sono testimonianze di vari morti innocenti, compresi bambini. Ma per stessa ammissione dell’organizzazione terroristica Jaish-e-Mohammad sono stati coinvolti nei bombardamenti anche alcuni edifici connessi al gruppo a Bahawalpur, in Punjab.
Nei giorni seguenti il Pakistan ha risposto con le sue, di bombe, stavolta verso il Kashmir indiano. Alla fine, i reciproci colpi di artiglieria e attacchi con droni – che ufficialmente avrebbero colpito obiettivi terroristi e militari – hanno causato decine di morti civili su entrambi i lati della regione. Chi è sopravvissuto in molti casi ha perso tutto: casa, lavoro, futuro. «Siamo esausti. Non vogliamo un’altra pausa temporanea, vogliamo una soluzione duratura e permanente», ha detto Muneeb, uno studente di Srinagar, ad Al Jazeera.
Le punizioni collettive
La regione del Kashmir è rivendicata interamente sia dall’India che dal Pakistan fin dalla Partition dall’Impero Britannico del 1947, ma entrambi i paesi ne controllano solo una parte. Ha fatto da sfondo a due guerre (1947-48 e 1965) e a vari scontri a più bassa intensità, ma non ci sono mai stati reali cambiamenti di status quo, e a livello amministrativo il territorio resta diviso da un confine che viene definito Linea di Controllo. Scontri come quelli di inizio maggio tra Nuova Delhi e Islamabad non si vedevano dalla guerra che nel 1971 portò all’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan, ma in Kashmir, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, esistono da decenni varie forme di lotta armata (terrorismo, per la parte indiana) che mirano a separare la regione dall’India.
Il Kashmir è l’unica regione a maggioranza musulmana in tutta l’India, dove le persone di fede islamica sono una – enorme – minoranza. Le cose per loro sono peggiorate dal 2014, con l’ascesa al potere del Bharatiya Janata Party (BJP), il partito di destra nazionalista indù guidato dal premier Narendra Modi. Da allora Nuova Delhi ha iniziato a discriminare sistematicamente i musulmani indiani, che in Kashmir sono stati colpiti con particolare forza, anche sul piano istituzionale. Tanto che nel 2019 il governo indiano ha revocato lo status speciale di semi-autonomia garantito per costituzione alla regione, che è stata trasformata in uno Union Territory (Jammu e Kashmir) gestito direttamente da Nuova Delhi.
Se i kashmiri pakistani devono preoccuparsi soprattutto delle bombe indiane, in India le cose vanno dunque diversamente. Al di là alla carenza di bunker, che espone la maggior parte dei kashmiri indiani agli attacchi di Islamabad, i rischi per la popolazione non arrivano solo dal cielo e c’è chi ha perso la casa anche prima che fosse eventualmente colpita da un missile pakistano. A seguito dell’attentato del 22 aprile, come forma di ritorsione, le autorità indiane hanno infatti deciso di far esplodere almeno una decina di abitazioni in cui abitavano i parenti di alcuni miliziani noti alle forze di polizia.
«Non gli abbiamo chiesto noi di unirsi ai terroristi», ha detto a Scroll la sorella di un miliziano, che non ha più un posto dove stare. Lo stesso destino è toccato ad altre decine di kashmiri indiani, colpiti in una forma di punizione collettiva che vìola le stesse norme indiane e le leggi internazionali a tutela dei diritti dei civili. Più di 2.500 persone sono state inoltre arrestate e interrogate perché potenzialmente connesse all’attentato, nella maggior parte dei casi senza prove.
«Dopo l’attentato abbiamo ricevuto odio, umiliazioni, perquisizioni e arresti ingiusti» ha dichiarato un fattorino kashmiro a Kashmir Times. Quella del sospetto e della discriminazione è una condizione di vita comune da tempo per i kashmiri indiani: «Perché siamo etichettati tutti come terroristi? In molti stati [indiani] non ci viene nemmeno permesso di affittare una casa», ha detto, «il mio destino è ingiusto, sono costretto a imparare a zoppicare, non a camminare».
Gli fa eco Sabzar, un lavoratore precario. Pur non avendo legami con i terroristi, la sua casa, come quella di molti altri estranei ai fatti, si trovava vicino alle abitazioni fatte esplodere dalle autorità indiane ed è stata ampiamente danneggiata. «È come se fossimo dei morti viventi. Non abbiamo più niente, né cibo né soldi, solo polvere e silenzio», ha dichiarato in un’intervista del 5 maggio, giorni prima che il Pakistan lanciasse i suoi bombardamenti in risposta all’Operazione Sindoor. Un altro “danno collaterale” di uno scontro in cui chi parla di pace viene invitato a provare vergogna.
Di Francesco Mattogno
[Pubblicato su Gariwomag]