Nuovo colpo di scena nel caso Enrica Lexie: dopo soli dieci giorni, il governo ha ritrattato la sua posizione e rispedito i marò in India, tenendo fede all’accordo firmato con la Corte suprema. La diplomazia prova a limitare i danni d’immagine, senza molto successo.(UPDATED)
23 marzo 2013, 18:13 ora di New Delhi
Visto il terrorismo ingiustificato per la possibile pena di morte per i due marò, proviamo a chiarire una volta per tutte cosa è successo e perché i marò non rischiano – e non hanno mai rischiato – la pena di morte in India.
L’applicabilità della pena capitale, come abbiamo visto (leggi sotto), non era mai passata nemmeno dall’anticamera del cervello ai giudici della Corte suprema.
In Italia però la questione viene raccontata in termini stravolti, come fosse una grossa concessione ottenuta grazie al grimaldello del paventato mancato ritorno dei marò in India. Una notizia irreale che, strombazzata ai quattro venti prendendo per buone le parole di una diplomazia italiana in difficoltà e in tremendo deficit di autorevolezza, mette l’opinione pubblica italiana davanti a una naturalissima smentita delle autorità indiane. E in Italia, è subito tragedia.
La prima smentita, quella che doveva smascherare immediatamente le panzane di Terzi & Company, passa purtroppo sotto silenzio. Il ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid, la mattina del 22 marzo, pronuncia un lungo discorso davanti alle camere del parlamento, spiegando che:
Il Governo ha informato il Governo italiano che i due marò non saranno passibili di arresto se torneranno entro la scadenza fissata dalla Corte suprema indiana (il 22 marzo, ndt) e saranno di nuovo vincolati alle condizioni contenute nell’ordine passato dalla Corte suprema il 18 gennaio 2013 (le famose condizioni di quasi libertà, che nuove non erano, ndt); e che, secondo una prassi ben consolidata della giurisprudenza indiana, questo caso non rientrerà nella categoria di procedimenti penali che contemplano la pena di morte, ovvero i casi “rarest of the rare”. Perciò, non c’è alcun motivo di apprensione a riguardo.
Quindi nessuna novità, nessuna concessione speciale e nessuna garanzia che non fosse già stata almeno dal 18 gennaio.
Ma anche l’India è investita dal corto circuito d’informazione italiano. Iniziano ad arrivare nelle redazioni di giornali e telegiornali indiani le traduzioni delle notizie italiane, che parlavano di “garanzie date dall’India”, alcune addirittura di “patto”.
Khurshid è costretto a smentire davanti ai media indiani cose che, in effetti, non aveva mai detto, e nel tentativo di mettere la parola fine alle assurdità importate dalla stampa italiana, il ministro della Giustizia indiano Ashwani Kumar ribadisce al canale televisivo Cnn-Ibn un paio di ovvietà.
La prima: l’India non ha fatto nessun patto nuovo con l’Italia. La seconda, posta a mo’ di domanda retorica: “Come può il potere esecutivo dare garanzie sulla sentenza di un tribunale?”.
In India, dove vige un sistema democratico, c’è la divisione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, come ci faceva studiare la professoressa Lucilla alle medie. Il governo indiano non può e non deve mettere bocca nell’operato della Corte suprema, che in India è un’istituzione molto rispettata per la sua autonomia ed autorevolezza, a differenza del potere esecutivo e del parlamento indiano, spesso teatro di scene tragicomiche da mercato delle vacche.
La notizia arriva in Italia non come una precisazione – superflua – ma come una smentita. “Gli indiani ci avevano assicurato che non avrebbero dato la pena di morte e ora il loro ministro ritratta”.
Ecco gli effetti del corto circuito dell’informazione approssimativa: se si dà una notizia falsa, fidandosi ciecamente delle dichiarazioni dei politici senza fare “la seconda domanda”, quella che mette in difficoltà l’interlocutore, poi la smentita della falsa notizia diventa una seconda balla. E’ un cane che si morde la coda, un processo che si autoalimenta senza soluzione di continuità, con gli effetti disastrosi sulla società e sull’opinione pubblica che sono sotto gli occhi di tutti.
Il dialogo tra sordi genera mostri editoriali come Libero, ad esempio, che pochi minuti dopo la “smentita” del ministro Kumar, titola a tutta pagina nella versione online: “L’India gela Monti e Terzi, smentiti gli accordi sui marò. Rischiano la pena di morte”.
Disinformazione, distrazione di massa, terrorismo ingiustificato. Ecco come si fa.
La storia
L’altroieri sera è arrivato l’ennesimo colpo di scena nel caso due marò. Una vicenda che, pur ruotando attorno alle gravi accuse di duplice omicidio mosse dalle autorità indiane contro i due fucilieri della Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, in queste ultime settimane è stata gestita dalla Farnesina in modo assolutamente approssimativo. E sì, ricorriamo ad eufemismi.
L’11 marzo scorso, infatti, un comunicato del Ministero degli Esteri italiano annunciava che i due sottufficiali, in Italia grazie ad una licenza accordata dalla Corte suprema, non avrebbero fatto ritorno in India, venendo meno alle rassicurazioni che l’Ambasciatore d’Italia in India, Daniele Mancini, aveva firmato e depositato presso il massimo tribunale indiano.
L’India si era comprensibilmente infuriata, estendendo un regime di limitazione della libertà personale di Mancini – proibendogli di lasciare il Paese fino a nuovo ordine – che se fosse stato smascherato dal nostro Ambasciatore, sfidando le autorità indiane a giustificare legalmente il non riconoscimento della sua immunità diplomatica, si sarebbe quasi certamente configurato in una grave violazione della Convenzione di Vienna del 1961.
La notizia era stata accolta in Italia con timido entusiasmo, con attestati di solidarietà ai due marò e parzialissime ricostruzioni di tutto l’iter legale architettate per giustificare davanti all’opinione pubblica italiana – sistematicamente disinformata sul caso Enrica Lexie da più di un anno – un’iniziativa scellerata che ha rischiato e rischia tuttora di compromettere i rapporti bilaterali tra Italia e India.
Si è sostenuto che la giurisdizione del caso fosse stata definitivamente data all’India nella sentenza del 18 gennaio, e non era vero.
Si è lamentata una reticenza delle autorità indiane ad un sereno dialogo bilaterale per arrivare alla soluzione della diatriba, e non era vero.
Recentemente, si è addirittura cercato di giustificare il non ritorno dei marò – con ogni probabilità caldeggiato dal tandem Terzi – Di Paola, ministri di Esteri e Difesa – come una misura necessaria per evitare un’estradizione di cittadini italiani verso un Paese che applica la pena di morte, atto che va contro le indicazioni della nostra Costituzione.
Sorvolando abilmente sul fatto che l’estradizione è stata resa possibile solo grazie al ritorno in Italia dei marò concesso dalle autorità indiane per ben due volte – a Natale, quando il problema della pena di morte non era stato sollevato da nessuno, e per le elezioni nazionali di febbraio – senza spiegare come mai all’Ambasciatore Mancini sia stato permesso firmare un affidavit in cui, per conto dell’Italia, si impegnava a far rispettare un ritorno in India dei marò platealmente incostituzionale.
Senza contare che l’applicazione della pena di morte, in India, è circoscritta a casi “rarest of the rare”, di eccezionale gravità. Dal 1995 ad oggi l’India ha sentenziato quattro persone: due terroristi (uno pakistano e un kashmiro), un serial killer ed uno stupratore di minorenni.
I due fucilieri, anche qualora fossero giudicati colpevoli, sicuramente non rientrano in questa casistica. Lo ha detto molto chiaramente ieri il Ministro degli Esteri indiano Salman Khurshid, spiegando che l’opzione di pena di morte per i due marò, in India, non era mai stata nemmeno lontanamente presa in considerazione.
Nel silenzio assordante del Ministro Terzi, che fino a pochi giorni fa vantava immaginarie “solide basi legali” a difesa della scelta di tenere i marò in Italia evocando anche “molti partner internazionali” disposti a supportare la posizione italiana – e in dieci giorni non se ne sono visti – il 21 marzo una nuova nota del governo ribalta ancora la posizione italiana, spiegando che “a fronte di ampie rassicurazioni sul rispetto dei loro diritti fondamentali”, Girone e Latorre sarebbero tornati in India come da accordi.
Nel comunicato di palazzo Chigi si legge:
Sulla base delle decisioni assunte dal CISR, il Governo italiano ha richiesto e ottenuto dalle autorità indiane l’assicurazione scritta riguardo al trattamento che sarà riservato ai fucilieri di Marina e alla tutela dei loro diritti fondamentali. Alla luce delle ampie assicurazioni ricevute, il Governo ha ritenuto l’opportunità, anche nell’interesse dei Fucilieri di Marina, di mantenere l’impegno preso in occasione del permesso per partecipare al voto, del ritorno in India entro il 22 marzo. I Fucilieri di Marina hanno aderito a tale valutazione.
Il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura, lo specialista di diplomazia internazionale chiamato dal governo italiano ad occuparsi in prima persona del caso Enrica Lexie, ha illustrato alla stampa il regime di libertà del quale godranno i due marò in India:
Latorre e Girone sono accompagnati dal sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura e risiederanno nell’ambasciata italiana a New Delhi e avranno "libertà di movimento". Lo ha assicurato lo stesso De Mistura aggiungendo: "potranno anche andare al ristorante se vogliono"
In sostanza: le stesse identiche condizioni delle quali hanno goduto dal 18 gennaio 2013, data in cui la Corte suprema aveva espresso un primo verdetto escludendo lo Stato del Kerala dal contenzioso legale ed ordinando che i due imputati fossero trasferiti sotto la custodia e responsabilità dell’Ambasciata d’Italia a New Delhi.
De Mistura, probabilmente chiamato a tappare le voragini scavate da Terzi, nell’estremo tentativo di salvare quel briciolo di dignità italiana davanti al mondo, si è spinto ad esaltare le rassicurazioni indiane circa la non applicabilità della pena di morte – pericolo che, se si fossero esaminati i precedenti in India, fondamentali nella tradizione legale britannica della Common Law, era quanto mai remoto – e a riformulare le prese di posizione di una decina di giorni fa: "La parola data da un italiano è sacra: noi avevamo sospeso [il loro rientro] in attesa che New Delhi garantisse alcune condizioni". Una spiegazione immaginaria che stride assolutamente coi toni perentori del comunicato dell’11 marzo.
Anche il ministro Terzi, sotto accusa per la gestione dliettantistica di tutto il caso, ha cercato di esaltare la manovra strategica italiana in un’intervista su Repubblica. Il botta e risposta tra il giornalista ed il ministro è pieno di approssimazioni e mistificazioni che ieri, ospitati da Wired Italia, avevamo già avuto modo di confutare.
Latorre, Girone e le rispettive famiglie – illuse dalle nostre istituzioni di una soluzione del caso inesistente – preferiscono evitare ogni commento.
Ma a rendere l’idea della delusione che si respirava nelle case dei due sottufficiali ci ha pensato il sindaco di Bari, Michele Emiliano, che ha raggiunto l’abitazione di Salvatore Girone non appena la novità del ritorno in India è stata diramata dalle agenzie.
"Qualcuno in maniera inqualificabile, parlo del governo italiano, ha detto a Girone che poteva non rispettare l’impegno preso con l’India; gli ha detto che poteva restare a casa e che tutto era stato risolto dal governo che così ha avuto momenti di visibilità a cavallo delle elezioni. Oggi, alla scadenza dell’ultimatum Girone è stato convocato a Roma e gli hanno comunicato che l’onore dell’Italia, e forse gli interessi, erano stati devastati dall’incapacità di coloro, ministri e capo del governo, che si sono occupati della vicenda"
In India la notizia, arrivata a notte fonda, in mattinata è stata accolta come una grande vittoria della linea dell’intransigenza dettata dalla Corte suprema e seguita a ruota dal governo centrale: un successo politico dell’Indian National Congress (Inc), che peserà molto sugli esiti delle prossime elezioni nazionali, previste per il 2014.
Anche il Barathiya Janata Party (Bjp), principale partito d’opposizione che negli ultimi giorni ha mosso durissime accuse di incapacità all’esecutivo indiano, è stato costretto a rimangiarsi tutto. Un portavoce del Bjp ha dichiarato: “Il modo in cui il governo ha portato avanti la propria manovra diplomatica sembra abbia funzionato. Anche la forte presa di posizione della Corte suprema sembra abbia dato i suoi frutti”.
Soddisfazione anche dalle parti dell’Inc, col ministro degli Esteri Khurshid ha voluto rimarcare il successo della diplomazia indiana spiegando ai microfoni delle tv locali che “la diplomazia continua a lavorare anche quando gli altri pensano sia tutto perduto”. Poche ore prima anche il primo ministro Manmohan Singh si era rallegrato davanti al parlamento, dicendosi “felice che la dignità e l’integrità del processo giudiziale indiano sia stata tutelata”.
Col rientro dei marò in India, atterrati a New Delhi nel tardo pomeriggio di ieri, si torna sostanzialmente ad un nulla di fato.
Le accuse di oltraggio alla Corte contro l’Ambasciatore Mancini decadranno e si tornerà semplicemente ad attendere la formazione della Corte speciale chiamata a pronunciarsi sui nodi fondamentali di giurisdizione ed immunità funzionale dei due fucilieri in servizio sulla petroliera italiana.
Tanto rumore per nulla e, è evidente, ennesima dimostrazione dell’immagine caricaturale che l’Italia continua a proiettare oltre i propri confini.