India – Ayodhya 20 anni dopo: orgoglio e violenza hindu

In by Simone

Il 6 dicembre del 1992 una folla di estremisti hindu ha raso al suolo la moschea Babri di Ayodhya, in Uttar Pradesh. Da allora, gli scontri tra hindu e musulmani hanno causato migliaia di vittime. Dopo 20 anni, l’anima intollerante dell’induismo estremo minaccia ancora l’armonia dell’India multiculturale.
Vent’anni fa nella città santa di Ayodhya, Uttar Pradesh, si è consumato uno degli episodi più vergognosi della storia indiana recente.

Ma parlare di “episodio” non è tecnicamente corretto. Il 6 dicembre del 1992, la distruzione della Babri Masjid – un’imponente moschea realizzata nel 1527 per volere di Babar, primo imperatore della dinastia Moghul – ha svelato definitivamente il volto più intollerante di un certo induismo, plagiato nei suoi ideali fondanti e piegato al servizio della politica settaria del Bharatiya janata party (Bjp), oggi primo partito all’opposizione in India.

Tutto iniziò nel settembre del 1990, quando l’allora presidente del Bjp L.K. Advani decise di intraprendere una marcia da Somnath, Gujarat, fino ad Ayodhya, con l’obiettivo di “educare gli induisti” circa la questione della Babri Masjid, uno dei punti focali della campagna elettorale del Bjp.

Secondo Advani, il Bjp ed il resto delle organizzazioni paramilitari hindu che gravitano attorno al partito conservatore – la Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), lo Shiv Sena di Bal Thackeray e la Vishva Hindu Parishad (Vhp) – la Babri Masjid sarebbe stata costruita nel punto preciso dove nacque il dio Rama.

Un affronto centenario alla supremazia hindu (hindutva) che nel 1990, a pochi mesi dalle elezioni in Uttar Pradesh del 1991, doveva essere riscattato.

La marcia di Advani – che per comodità si trasformò in un viaggio su un furgone Toyota con aria condizionata – raccolse migliaia di seguaci, in larga parte appartenenti alle caste più alte del sistema hindu, generando una frenesia collettiva per l’imminente demolizione della moschea da parte della folla. La moschea doveva essere distrutta per fare posto ad un nuovo tempio di Ram.

In Raam ke naam (Nel nome di Ram, in hindi con sottotitoli in inglese, nda), documentario girato in quei giorni da Anand Patwardhan, la follia dell’estremismo e l’esaltazione della massa è evidente: in autobus o a piedi migliaia di militanti raggiungono Ayodhya intonando slogan anti Islam e minacciando l’uso della forza contro chi avesse osato fermarli, fossero stati musulmani, la polizia, lo Stato, i comunisti, i “liberal”. Lungo il percorso della marcia l’odio interreligioso portato da Advani e i suoi causò decine e decine di morti.

La demolizione non riuscì nel 1990, grazie all’intervento della polizia, ma nel 1992 – dopo che il Bjp stravinse le elezioni e salì al potere in Uttar Pradesh – le forze politiche paladine dell’hindutva organizzarono una manifestazione ad Ayodhya per iniziare “simbolicamente” la costruzione del nuovo tempio.

Nonostante la promessa dei leader presenti, tra cui Advani, che la moschea non sarebbe stata toccata – almeno così dissero alla Corte suprema di Delhi – i 150mila presenti alla manifestazione si scagliarono contro la Babri Masjid, in piedi in mezzo a decine di templi hindu e moschee musulmane per oltre quattro secoli, radendo tutto al suolo. Completamente indisturbati.

La reazione a catena era innescata: mentre la politica si indignava e i leader del Bjp si scusavano per la folla “improvvisamente” incontrollabile, le comunità hindu e musulmane di diverse città dell’India si scontrarono violentemente. I morti furono oltre duemila, 900 nella sola Mumbai che, allora come oggi, era controllata dallo Shiv Sena di Bal Thackeray.

In quell’occasione Thackeray invitò le sue squadracce a “dare una lezione ai musulmani”.

Le denunce e i procedimenti penali a carico dei leader dell’hindutva non ebbero seguito. Nel 2002 le accuse di istigazione all’odio mosse dal Central Bureau of Investigation (Cbi, la Fbi indiana) contro Advani, Thackeray e gli altri furono archiviate.

Bal Thackeray è morto poche settimane fa ad 86 anni, salutato dall’India come “un vero nazionalista”. Il suo corpo è stato bruciato in piazza a Mumbai, avvolto nella bandiera tricolore indiana, circondato da centinaia di migliaia di seguaci.

L.K. Advani, 85 anni, è ancora oggi uno dei leader del Bjp e continua la sua carriera da deputato parlamentare.

L’India, a vent’anni da Ayodhya, ha fretta di archiviare il caso, esaltando la presunta natura secolare e tollerante dell’Unione indiana indipendente.

Ma l’India di Ayodhya, vista da fuori, rappresenta tutto ciò che può minare l’armonia precaria di un Paese-continente da 1,25 miliardi di persone, l’85 per cento dei quali di fede hindu.

In primo luogo ha messo a nudo la pericolosità del lato forse più intatto ed esotico dell’India: la religione. Quando l’ideologia religiosa diventa programma politico – e non parliamo solo del Bjp, ma anche dei partiti locali sikh in Punjab e della Lega musulmana – il rischio di settarismo in un Paese così multiculturale e variegato è altissimo.

Specie nelle grandi metropoli, crocevia di popoli e tradizioni diverse dove ancora oggi la divisione in quartieri religiosi o castali è purtroppo la norma.

Inoltre l’India deve fare i conti con l’intolleranza carratteristica del Bjp, partito manovrato da forze ultranazionaliste che, a fini politici, non hanno esitato a scagliarsi – anche non metaforicamente – contro musulmani, indiani del sud, comunisti, dalit e cristiani: minoranze di volta in volta letteralmente sacrificate per polarizzare il voto hindu contro i “progressisti” del Congress.

Nel futuro prossimo il pericolo principale è rappresentato da Narendra Modi, chief minister del Gujarat in cima alla lista dei papabili per la candidatura del Bjp alle elezioni nazionali del 2014, già protagonista delle violenze in Gujarat del 2002: altri mille morti tra musulmani ed hindu nell’ennesimo strascico dello strappo di Ayodhya.

L’antidoto può essere solo culturale. Imporre un sentimento davvero unitario e secolare – come recita la Costituzione dal 1976 – e formare un’identità che possa abbracciare tutta la varietà di indiani divisa da lingua, religione, educazione e casta.

L’India l’hanno costruita nel 1947. Per gli Indiani, stiamo ancora aspettando.

[Foto credit: indianmuslimobserver.com]