Narendra Modi ha detto di sentirsi ispirato dall’epopea politicia di Lee Kuan Yew, artefice del miracolo economico di Singapore. La fascinazione del premier indiano per i risultati raggiunti dal padre-padrone Lee, specie per quel tasso di crescita medio del 7 per cento in quarant’anni, comporta anche un’adesione alle pratiche antidemocratiche che sono servite a Lee per creare la Singapore che conosciamo. Non una bella notizia, per l’India di domani.
Lee Kuan Yew, padre-padrone di Singapore, è morto lunedì scorso all’età di 91 anni. Narendra Modi, primo ministro indiano 64enne, nel weekend era tra i leader mondiali riuniti nella città-stato del sud-est asiatico per i funerali di una tra le personalità più influenti del secolo scorso, inventore del cosiddetto modello dello "Stato-balia" grazie al quale Singapore è oggi uno dei territori più ricchi del mondo. Modi ha speso parole lusinghiere nei confronti di Lee, citandolo come fonte d’ispirazione personale. Rivedere chi è stato Lee e verso quali traiettorie ha plasmato l’attuale Singapore può dirci molto dell’idea di India che ispira NaMo.
Nella giornata di domenica l’India ha osservato un giorno di lutto nazionale per la morte di Lee Kuan Yew, unico stato a farlo oltre alla Nuova Zelanda. La notizia della morte del leader ha campeggiato su tutti i giornali e telegiornali nazionali per gran parte della scorsa settimana, soprattutto grazie alle parole magniloquenti riservate da Narendra Modi per il defunto «portabandiera di speranza» Lee, artefice unico della trasformazione di Singapore «in una sola generazione» da villaggetto di pescatori a quarto hub finanziario al mondo, con una crescita del Pil del 7 per cento di media negli ultimi quarant’anni.
Un risultato aritmeticamente invdiabile – e infatti invidiato – che fa gola a tutti i leader asiatici in cerca di un modello di sviluppo fulmineo, come quello di Singapore, ma che mantenga almeno sulla carta i cosidetti "valori asiatici", declinati via via nelle varianti locali. La Singapore sfavillante, negli anni passati, ha attratto diversi leader mondiali alla corte del Supremo Lee, in cerca di consigli su come ricreare il miracolo della città-stato anche a casa propria, aspirazione che evidentemente Modi non nasconde, puntando il suo mandato di governo interamente sull’incremento del Pil. Ma il risultato della crescita ha un prezzo salatissimo che le agiografie di Lee apparse sulla stampa indiana hanno sistematicamente evitato di raccontare, esaltandone per contro le indubbie qualità di leadership e dedizione alla causa nazionale. Altrove, il racconto è stato un po’ più approfondito.
Un sub-continente balia?
Lee Kuan Yew è stato nominato primo ministro di Singapore per la prima volta nel 1959, rimanendo in carica ininterrottamente fino al 1990, quando si dimette facendosi sostituire da una sorta di primo ministro fantoccio – scelto da Lee – e introducendo la carica con poteri esecutivi di Emeritus Senior Minister, assegnabile esclusivamente a un ex primo ministro (cioè solo a lui stesso). Nel 2004 Lee Kuan Yew si ritira dalla vita politica, il fantoccio diventa Emeritus Senior Minister, e suo figlio Lee Hsien Loong viene eletto nuovo primo ministro. Si può quindi constatare che Singapore, sin dall’indipendenza dalla Malaysia, sia stato un paese a conduzione familiare.
Lee ha governato Singapore rincorrendo la crescita del Pil ad ogni costo, utilizzando metodi autoritari che vanno dall’arresto preventivo di sospetti comunisti alla censura della stampa nazionale, sulla quale non sono ammesse critiche all’operato dl governo. Quando i giornali esteri pubblicavano articoli contro il "regime" di Singapore, venivano bloccati alla dogana. L’opposizione politica interna è ridotta a zero, con leader incriminati per "diffamazione" o ridotti in bancarotta da cause multimilionarie intentate dalla dinastia Lee. La gestione del potere è stata condotta secondo il modello della dittatura illuminata, cioè sostituendo alla difficoltosa e lunga ricerca del consenso popolare democratico l’imposizione di misure fatte "per il bene di tutti" dall’alto verso il basso, assieme alla machiavellica gestione delle minoranze etniche secondo un sistema di quote e distribuzione sul territorio che renda impossibili assemblamenti potenzialmente eversivi.
In una dichiarazione riportata in un bellissimo coccodrillo pubblicato sull‘Economist, Lee Kuan Yew spiegava che «siamo noi [al governo] a decidere cos’è giusto e cos’è sbagliato. Quello che pensa la gente non ci interessa».
L’ordine, il progresso e l’efficienza nella produzione sono state assicurate instaurando un regime di terrore legale, con pene severe applicate in funzione deterrente: pene corporali per atti di vandalismo, impiccagione per spaccio di droga e omicidio, fino a 5 anni e 100mila dollari di singapore di multa (67mila euro) per reati di corruzione.
Agli abitanti di Singapore (oggi intorno ai cinque milioni) nei decenni è stato insegnato come comportarsi basandosi su un metodo restrittivo e autoritario fatto di divieti e regole rigidissime (la più nota: vietati i chewing-gum), tutte formulate per fare della città-stato un paradiso ballardiano dell’efficienza, compresi incentivi di stato per invogliare le donne laureate a fare più figli, così che il futuro pool genetico dell’Uomo di Singapore sia all’altezza della competizione mondiale.
Nel frattempo, assieme a politiche finanziarie decisamente vantaggiose e infratsrutture d’eccellenza per il commercio portuale, la manovalanza del paradiso economico viene impiegata a costi ridicoli, con accuse di traffico di essere umani per avere un costante ricambio di ingranaggi umani necessari al funzionamento perfetto della macchina statale architettata da Lee. Singapore è il terzo paese per reddito pro capite al mondo ma, contemporaneamente, il peggior per per diseguaglianza nel reddito tra i paesi sviluppati.
La descrizione della Singapore di oggi, rivedendo le promesse elettorali fatte da Narendra Modi, somiglia incredibilmente all’India della Vision di NaMo: un paese che vuole crescere basandosi sull’accentramento del potere nelle mani del leader illuminato, servendosi di politiche neo-liberiste per attrarre investitori stranieri e appiattendo i dissidi interni utilizzando un piglio da "tolleranza zero".
La mostruosità di un modello simile applicato su scala continentale indiana andrebbe ben oltre l’immaginazione distopica del già citato Ballard e, se l’assetto democratico "imperfetto" del subcontinente dovrebbe bastare per sventare la minaccia dell’autoritarismo capitalista alla Lee, il pericolo di un paese a immagine e somiglianza del Modi-pensiero dovrebbe mettere in allarme non solo le opposizioni interne, ma anche tutti gli osservatori e analisti dell’impresa politica dell’uomo solo al comando del Bjp. Invece, stando a quanto riporta la stampa, il fascino dell’uomo potente in grado di garantire crescita e benessere al proprio popolo, in India pare contagiare la popolazione molto più che il timore di stare avvallando una trasformazione ultraliberista per la quale il prezzo da pagare in libertà sarà altissimo.
Dettaglio che dovrebbe farci riflettere su quanto Modi sia capace di ammaliare l’elettorato nazionale o, per contro, quanto l’ascesa al potere di NaMo sia il frutto delle aspirazioni di quest’India post boom economico incompiuto.
[Scritto per East online; foto credit: theatlantic.com]