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In Cambogia la memoria del genocidio è uno strumento politico

In Sud Est Asiatico by Francesco Mattogno

In Cambogia si può parlare del genocidio solo nei termini decisi dal governo, che da 40 anni fonda gran parte della propria legittimità politica sull’aver sconfitto Pol Pot, ridando stabilità al paese. Il tribunale internazionale istituito per giudicare i Khmer Rossi ha funzionato, ma ha anche deluso, e oggi si punta sulle nuove generazioni per fare domande e ridiscutere della tragedia in modo neutrale

Esiste una differenza sostanziale tra le aule di un tribunale e quelle di una scuola: il limite entro il quale si possono fare domande. Le indagini di una corte sono vincolate dalla giurisdizione del tribunale, che non può essere oltrepassata. In classe è diverso. Un’aula scolastica «è relativamente libera», ha detto al New York Times Youk Chhang, direttore del Centro di Documentazione della Cambogia sul regime dei Khmer Rossi, e insegnare agli studenti la storia del genocidio è «un punto di partenza per fare domande e ripensare criticamente a tutti quegli eventi che non sono mai stati esplorati a fondo da un tribunale».

Anche per questo, nella primavera del 2024, il tribunale istituito in collaborazione tra le Nazioni Unite e la Cambogia per giudicare alcuni dei vecchi leader dei Khmer Rossi (ECCC, dall’acronimo del suo nome ufficiale in inglese, “Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia”) ha lanciato un’iniziativa particolare: un autobus-museo, con schermi interattivi e computer connessi agli oltre 975 mila documenti processuali raccolti nell’archivio digitale del tribunale. 

Da un anno, con tappe in tutte le 25 province cambogiane, il bus trasporta gli studenti del paese a scuola e in università mostrando alle nuove generazioni – a volte anche attraverso i racconti diretti dei sopravvissuti – la storia del genocidio perpetrato dal regime dei Khmer Rossi, che tra il 1975 e il 1979 uccisero almeno 1,7 milioni di persone, circa un quarto della popolazione cambogiana dell’epoca. 

I limiti (giuridici e politici) dell’ECCC

Del lavoro dell’ECCC, che ha operato dal 2006 al 2022, si è discusso molto. Se da un lato il tribunale è stato presentato come un modello virtuoso di ricerca della giustizia per crimini di genocidio, dall’altro l’ECCC è riuscita a condannare solo tre dei vecchi leader dei Khmer Rossi, ormai ultranovantenni. Va poi precisato che il “genocidio” trattato nei processi non si riferiva a quello della popolazione cambogiana (khmer) tutta, ma alle decine di migliaia di persone musulmane di etnia cham e ai membri della comunità vietnamita uccisi durante il regime.

Ai limiti della corte hanno infatti contribuito questioni tecniche e politiche. I Khmer Rossi hanno sterminato prevalentemente persone della loro stessa etnia khmer, una condizione che ha reso difficile far rientrare le loro azioni nella definizione giuridica di genocidio”, che presuppone la volontà di cancellare un determinato gruppo etnico. Per questo, riguardo ai khmer, si è parlato più generalmente di “crimini contro l’umanità”. Al resto ci ha pensato l’ex premier cambogiano Hun Sen, che nel 2023, dopo 38 anni al potere, ha lasciato il posto a suo figlio Hun Manet.

Hun Sen, oggi presidente del senato e tuttora leader del Partito Popolare Cambogiano (CPP), ha servito nei Khmer Rossi di Pol Pot fino al 1977, prima di disertare in Vietnam. Dopo la caduta del regime il 7 gennaio del 1979 (diventato poi il “Giorno della Liberazione”), dovuta proprio all’invasione della Cambogia da parte dell’esercito vietnamita, Hun Sen è tornato nel paese e nel 1985 ne è diventato primo ministro con il supporto di Hanoi, che ha occupato la Cambogia fino al 1989.

Visto il suo passato, fin dai suoi primi giorni al potere Hun Sen ha lavorato duramente per controllare il processo di costruzione della memoria del genocidio e, nonostante la cooperazione con l’ONU, è riuscito a impedire la totale indipendenza dell’ECCC, le cui competenze sono sempre state definite dal governo cambogiano. Il tribunale ha potuto processare solo una ristretta cerchia di persone selezionate da Phnom Penh, che ha evitato così l’apertura di indagini che avrebbero potuto rivelare il ruolo nel genocidio dello stesso Hun Sen e dei vari ex Khmer Rossi poi diventati esponenti del CPP, tra cui l’ex presidente della camera Heng Samrin.

Controllare la memoria 

Molti dei cambogiani sopravvissuti al genocidio sono rimasti in silenzio per decenni. Era un silenzio in parte dovuto alla paura, visto che il movimento dei Khmer Rossi, per quanto in esilio, ha continuato a sopravvivere fino ai primi anni Novanta. Ma la ragione era anche un’altra: ai superstiti mancava un “vocabolario della guarigione”. Come diretta conseguenza del trauma, e della cancellazione sistematica delle classi di intellettuali operata dai Khmer Rossi, a lungo i sopravvissuti non hanno trovato le parole per descrivere ed elaborare un crimine di quella portata. E in questo vuoto si è inserito lo stato.

Fin dal 1980, appena un anno dopo la caduta del regime di ispirazione maoista, il nuovo governo controllato dal Vietnam ha disposto l’apertura di un museo (il Museo del genocidio di Tuol Sleng) in quella che era la sede di una delle più famigerate prigioni dei Khmer Rossi, la S-21 di Phnom Penh, dove si ritiene siano state giustiziate oltre 12 mila persone. In un momento in cui non si era bene a conoscenza dei crimini dei Khmer Rossi, il museo serviva a giustificare l’invasione e l’occupazione della Cambogia da parte di Hanoi, sia davanti alla popolazione che di fronte alla comunità internazionale. 

Ciò che viene esposto a Tuol Sleng, ancora oggi, c’entra poco con la volontà di informare riguardo le atrocità compiute dal regime di Pol Pot, ma cerca piuttosto di colpire l’emotività del visitatore presentandogli una narrazione chiara: quella era la Cambogia prima che il CPP e Hun Sen – come estensione del Vietnam – la salvassero. Sulla scia di questo, nel 1983 venne istituita la “Giornata nazionale della rabbia”, che cade ogni 20 maggio, il giorno in cui si ritiene che i Khmer Rossi abbiano iniziato con le esecuzioni di massa, nel 1975. Per tutti gli anni Ottanta e Novanta le commemorazioni della “Giornata della rabbia” (ribattezzata “Giornata della memoria” nel 2018) sono state molto enfatizzate dal CPP, nel tentativo di legittimare il suo governo. E per la popolazione partecipare era quasi obbligatorio

Nel corso degli anni il governo cambogiano ha proseguito con quella che si può definire una “politica della commemorazione”. Ha trasformato alcuni dei vecchi campi di sterminio in luoghi del ricordo, che ospitano ogni anno delle rappresentazioni storiche della tragedia, e inaugurato una serie di monumenti e memoriali dedicati al genocidio. I sopravvissuti hanno poi cominciato a parlare e a chiedere giustizia, soprattutto a partire dall’istituzione dell’ECCC, ma tuttora in Cambogia non c’è mai stata una vera discussione pubblica sul genocidio che fosse in grado di uscire dai binari della narrazione governativa.

O con il CPP, o con i Khmer Rossi

Nonostante i tentativi internazionali di ricostituzione democratica della Cambogia, incarnati dalla missione UNTAC del 1992-1993, per quarant’anni Hun Sen e il CPP sono riusciti a restare al potere attraverso la repressione sistematica delle opposizioni, a cui ha contribuito anche la manipolazione della memoria storica del genocidio. Nel tentativo di minare la popolarità del nazionalismo anti-vietnamita all’interno dell’opinione pubblica cambogiana, e indebolire le opposizioni, da anni Hun Sen e il suo partito presentano le sfide elettorali come una scelta tra bene e male: chi non sta con il CPP, sta con i Khmer Rossi.

In questa retorica si inserisce l’approvazione in parlamento, a febbraio 2025, della nuova legge contro il negazionismo del genocidio, che prevede condanne fino a cinque anni di carcere per chiunque neghi o minimizzi i crimini dei Khmer Rossi, inasprendo le pene di una legge analoga del 2013. Come ha scritto sul Diplomat Sebastian Strangio, giornalista esperto di Sud-Est asiatico e autore di Hun Sen’s Cambodia (2014), «l’obiettivo della legge può sembrare ragionevole», ma il suo vero scopo è quello di «fornire al CPP gli strumenti legali per mettere a tacere le legittime interpretazioni dissenzienti riguardo la storia della Cambogia e del partito stesso». 

La teoria che Hun Sen presenta ripetutamente alla sua opinione pubblica è che una Cambogia non governata dal CPP corra il rischio di diventare instabile, e che in questo modo possano quindi ripresentarsi le condizioni politiche che hanno portato al genocidio. Chiunque punti a rovesciare con mezzi democratici il governo autoritario del CPP diventa allora una «reale minaccia per la pace», mentre chi chiede una riformulazione neutrale della memoria del genocidio si trasforma in un “negazionista” da perseguire per vie legali.

In questo contesto, la memoria del genocidio in Cambogia si è dunque trasformata in uno strumento nelle mani dell’élite che da quattro decenni governa il paese. È una memoria selettiva, calata dall’alto e piegata secondo interessi politici: la commemorazione del passato che conviene ricordare, il silenzio su ciò che si deve dimenticare, l’opposizione in bianco e nero tra “salvatori” e “criminali” che impedisce ogni discorso pubblico neutrale sui fatti storici. 

Solo quando farsi i cambogiani potranno farsi domande sui Khmer Rossi, e mettere in discussione la versione del CPP non sarà più illegale, allora forse le vittime del genocidio potranno davvero trovare giustizia. Chissà che tutto non possa partire da un’aula di scuola.

Di Francesco Mattogno

[Pubblicato su Gariwomag]