rohingya genocidio

Il secondo genocidio Rohingya

In Economia, Politica e Società, Sud Est Asiatico by Alessandra Colarizi

Dal 2017 la minoranza musulmana è perseguitata a prescindere dal governo al potere. Stupri di massa, uccisioni e razzie hanno costretto quasi 1 milione di Rohingya a fuggire dal Myanmar in Bangladesh, dove continuano a vivere in campi profughi sovraffollati e con risorse insufficienti. La sospensione degli aiuti umanitari forniti dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (AID) ha gravemente compromesso la fornitura di cibo di base e assistenza medica a centinaia di migliaia di rifugiati birmani in Bangladesh, India e Thailandia, aumentando il rischio di malnutrizione e morte prematura.

Nell’agosto del 2024, una ventina di cadaveri sono comparsi nelle acque del fiume Naf, nello Stato Rakhine, territorio semiautonomo del Myanmar occidentale. Secondo i testimoni oculari, la carneficina è riconducibile a un attacco con droni. Chi sia il proprietario di quelle armi letali però non è chiaro. Dal golpe del febbraio 2021 lo Stato (precedentemente noto come Arakan) è diventato teatro di un sanguinoso scontro tra la giunta militare al potere e l’Esercito dell’Arakan (Arakan Army), una delle organizzazioni armate etniche del Myanmar. Una resa dei conti scandita da abusi e violenze su entrambi i fronti. 

Fondata nel 2009, l’AA vanta oggi sofisticate strutture militari e anche amministrative, tramite la Lega Unita di Arakan (ULA). La sua missione originaria è sempre stata opporsi al governo centrale birmano di Naypyidaw e rivendicare maggiore autonomia per il Rakhine, regione per il 75% buddhista. Ma dal colpo di stato ha aderito al più ampio movimento di resistenza: la cosiddetta Alleanza delle Tre Fratellanze, coalizione militare composta da tre gruppi armati (inclusi la Myanmar National Democratic Alliance Army e la Ta’ang National Liberation Army) a cui partecipa anche il governo di unità nazionale birmano in esilio, nato dalle ceneri della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi, che i golpisti hanno sciolto nel 2023. Dal lancio dell’offensiva nel novembre 2023, l’AA ha liberato 14 dei 17 comuni dello Stato Rakhine, mentre i combattimenti hanno quasi raggiunto la capitale Sittwe e la città portuale di Kyaukpyu, dove sono concentrati importanti progetti infrastrutturali finanziati dalla Cina. 

A pagare il prezzo di questo brutale conflitto sono soprattutto i civili. La giunta non ha concesso alcuna tregua alla popolazione, nemmeno dopo il terribile terremoto del 28 marzo costato oltre 3700 vite. Dal sisma al 15 maggio, secondo l’AA, sono stati effettuati oltre 500 attacchi solo nel Rakhine. Venticinque persone sono morte durante il bombardamento di una scuola da parte dell’esercito regolare birmano (Tatmadaw). Sul fronte opposto si consumano violenze altrettanto efferate. Anche l’AA continua ad avanzare, colpendo non solo le truppe del Tatmadaw, ma anche la popolazione. Nel fuoco incrociato più di 2.000 persone sono state uccise, 40.000 sono state costrette a fuggire e innumerevoli villaggi sono stati completamente distrutti.

Lo sa bene Noor Kalim, 55 anni, che ha la gamba sinistra martoriata di ferite: la prima se l’è procurata nel 2012 sotto i colpi della giunta, l’ultima la scorsa estate dopo un attacco dell’AA. E’ quello che viene chiamato il “secondo genocidio” dei Rohingya, etnia di religione islamica di fatto apolide e senza diritti che abita la regione a maggioranza buddhista. Il governo birmano considera Noor Kalim e chiunque appartiene alla minoranza “bengali”, ovvero immigrati dall’attuale Bangladesh arrivati durante e dopo il periodo coloniale britannico. Dal 2017 sono perseguitati a prescindere dal governo al potere. Stupri di massa, uccisioni e razzie hanno costretto quasi 1 milione di Rohingya a fuggire dal Myanmar in Bangladesh, dove continuano a vivere in campi profughi sovraffollati e con risorse insufficienti. La sospensione degli aiuti umanitari forniti dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (AID) ha gravemente compromesso la fornitura di cibo di base e assistenza medica a centinaia di migliaia di rifugiati birmani in Bangladesh, India e Thailandia, aumentando il rischio di malnutrizione e morte prematura.

Contribuisce ad aggravare la situazione la storica rivalità tra l’AA e l’Esercito per la salvezza dei Rohingya nel Rakhine (ARSA), sigla che si propone di proteggere i musulmani Rohingya e che il governo birmano considera un gruppo terroristico. Come in altre circostanze in passato, la giunta sta sfruttando le divisioni etniche locali per indebolire l’AA e mantenere il potere. Tanto che dal 2024, secondo il quotidiano locale Irrawaddy, i golpisti starebbero appoggiando l’ARSA al fine di contrastare le operazioni dell’AA.

Sia l’ARSA che il Tatmadaw hanno cercato di reclutare con la forza i membri della minoranza: le Nazioni Unite contano quasi 2000 giovani Rohingya rapiti nei campi profughi del Bangladesh e costretti ad arruolarsi con la giunta. Alcuni conterranei di etnia Rakhine e religione buddhista, convinti si tratti di una scelta volontaria, hanno cominciato a prendere di mira la minoranza islamica nello Stato semiautonomo, dove sono stati denunciati diversi incendi dolosi ed episodi di odio razziale per la prima volta dopo anni di convivenza relativamente pacifica.

Chi tenta di fuggire dal paese rischia ugualmente la vita: a inizio maggio almeno tre imbarcazioni che stavano cercando di raggiungere Cox’s Bazar si sono ribaltate e sono affondate, provocando la morte di centinaia di profughi. Il Bangladesh non è l’unica destinazione dei fuggiaschi. Per le Nazioni Unite, altre grandi comunità Rohingya si trovano in Malaysia (177mila persone), in India (83.400) e Thailandia (81mila). Rifarsi una vita oltreconfine non è però semplice. Anche il governo di Nuova Delhi, che da anni attua politiche discriminatorie contro i musulmani, si sta dimostrando sempre più ostile nei confronti dei nuovi arrivati: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), il mese scorso alcuni profughi Rohingya sono stati costretti ad abbandonare una nave della marina indiana e a dirigersi verso il Mare delle Andamane.

Nel tentativo di ripulire la propria reputazione internazionale, negli ultimi tempi l’AA ha affermato di accogliere con favore il ritorno dei rifugiati Rohingya, senza però chiarire le modalità e le condizioni dell’ipotetico rimpatrio. Un’eventuale conquista di tutto il Rakhine aprirebbe uno scenario inedito per l’organizzazione armata e la popolazione locale. Soprattutto nell’ipotesi – ancora piuttosto remota – di un collasso del regime birmano, messo a dura prova dal movimento di resistenza. Come evidenziato dal Center for Strategic and International Studies (CSIS), in questo caso l’AA potrebbe non più solo rivendicare maggiore autonomia, bensì perseguire la costituzione di uno Stato completamente indipendente. Ma, stando ai precedenti, anche in un Myanmar democratico i Rohingya non avranno vita facile.

Di Alessandra Colarizi

[Pubblicato su GariwoMag]