Il Nord Corea si insinua nelle crepe del sistema di governance globale. La sfida nordcoreana alla politica coreana dell’amministrazione Obama sembra accreditare la tesi di chi mette sotto accusa l’ininfluenza di Pechino sul regime nordcoreano. In molti si chiedono se sia possibile che Hu Jintao fosse all’oscuro delle mosse del “Caro Leader”. Una tesi affascinante è che le dialettiche interne al Pcc – il confronto tra il filone riformista e quello più conservatore che vede nel rapporto esclusivo con Pyongyang uno strumento di potere in chiave anti-americana – abbiano fatto perdere la faccia a Pechino.
Lo stupore destato in Occidente dall’incidente coreano è ingiustificato. E’ nel DNA del regime di Pyongyang condurre azioni provocatorie. La storia della penisola coreana è attraversata da 60 anni di provocazioni: dimentichiamo l’episodio – ben più grave – dei due missili che hanno superato in cielo il territorio giapponese? Da tempo Kim Jong II sta perseguendo la politica di brinkmanship: una strategia che usa il rischio calcolato come arma di sfida; ma solo chi è distratto può restare sbalordito da una politica che è ormai di prassi: “si sono scambiati 222 colpi di cannone”, e allora? Non bisogna fare dietrologia. Il vero problema oggi sono le tensioni che sconquassano l’Estremo Oriente. La linea di Obama è di fermare la Cina e rafforzare il rapporto con il Giappone e con la Russia (il presidente Dimitry Medvedev ha di recente fatto una visita inaspettata alla Corea del Nord).
La crescente tensione in Estremo Oriente ha certamente motivato i nordcoreani ad approfittarsi in qualche modo di una situazione caotica. Messo da parte il DNA della politica di brinkmanship della Corea del Nord, non possiamo sottovalutare un problema più semplice ma forse più determinante: il cambio di successione al potere in Corea del Nord (il “Caro Leader” Kim Jong Il, da tempo malato, ha designato come erede il figlio minore Kim Jong Un, classe 1983, una scelta che difficilmente ha incontrato il favore di alcuni settori dell’establishment militare, ndr) comporta all’interno del regime la ricerca di nuovi consensi attraverso la leva nazionalistica anti-sudcoreana.
Quindi sarei proteso a sdrammatizzare il coinvolgimento della Cina sull’attacco nordcoreano all’isola di Yeonpyeong. La Cina è in qualche modo l’unico paese che protegge la Corea del Nord ma non ha nessuna intenzione di avallarne gli attacchi; sul ruolo di Pechino nell’incidente si sta eccessivamente calcando la mano. Solo qualche mese fa i nordcoreani hanno affondato la corvetta sudcoreana provocando la morte di 46 marinai. Lo abbiamo dimenticato?
Alcuni osservatori sostenevano che i colpi sparati alcuni mesi fa, prima dell’affondamento della corvetta sudcoreana, erano serviti a richiamare l’attenzione sulla drammatica situazione interna ed erano partiti da elementi dell’esercito ostili alla leadership.
L’Occidente si trova di fronte alla divisione di un paese – la penisola coreana – che ha scoperto lo stato nazione quando noi europei eravamo ancora sotto il sacro romano impero. Quello coreano è un grande popolo che paga la guerra fredda: la divisione della Corea è l’ultime stigmate delle tensioni che hanno opposto i due blocchi internazionali; guerra fredda è stata per noi europei, ma per i coreani è stata caldissima, provocando milioni di morti.
Se da noi la guerra fredda si è conclusa con il crollo del Muro di Berlino, nella penisola coreana le ferite sono ancora aperte. Questo paese, che era prima più industrializzato al Nord, adesso ha un Sud straordinario dal punto di vista economico (una delle economie più vivaci al mondo) e un Nord invece funestato dalla povertà. Il sentirsi accerchiato dalla comunità internazionale, la paura di non avere consensi necessari in un momento cruciale della successione al potere: sono questi gli elementi chiave per una chiara interpretazione dei fatti.
Un suo commento sulla politica di Washington? Dalla crisi di Cheonan, mentre la Cina ha proseguito nel suo atteggiamento conciliatorio anche per controllare il processo di successione, gli Stati Uniti hanno invece organizzato operazioni navali congiunte con la Corea del Sud nelle acque del Mar Giallo con la conseguenza di inasprire le tensioni con Pechino.
La politica di Obama sta cambiando. Washington sta abbandonando l’atteggiamento realista nei confronti della Cina, ingaggiando elementi che sono di tipo liberali nella tradizione delle relazioni internazionali. Nel suo recente viaggio di 10 giorni in Asia – una durata insolita per un presidente americano –, Obama si è recato ovunque ma non in Cina. Il presidente americano ha fatto visita in quelle che negli Stati Uniti vengono considerate le quattro democrazie asiatiche: India, Indonesia, Giappone e Corea del Sud.
La Cina è stato un convitato di pietra; i discorsi pronunciati da Obama sono stati letti in chiave anti-cinese come mai accaduto in passato. La nuova politica americana sembra innestarsi su un recupero di valori – democrazia e diritti umani – che la politica realista nei confronti di Pechino aveva precedentemente scalzato. A questo cambiamento consegue, ovviamente, una maggiore tensione tra Washington e Pechino, un riavvicinamento di Tokyo con Washington e quindi una maggiore tensione tra Tokyo e Pechino (le recenti schermaglie sulle isole Diaoyu-Senkaku). Se consideriamo tutti questi elementi, diventa banale chiedersi se la Cina fosse a conoscenza o meno delle intenzioni belligeranti di Kim Jong II.
Se Hu Jintao lo avesse saputo, avrebbe senz’altro impedito i colpi d’artiglieria. La reazione della Cina è comunque stata chiara: Pechino ha opposto un ferreo no all’escalation militare sottolineando che le due parti devono cooperare. La soluzione – dice il governo cinese – non deve essere di tipo militare, ma deve essere negoziata. Tutti noi siamo convinti che sia questa la via migliore, perché quando finisce di lavorare la feluca del diplomatico, entra in gioco la sciabola del generale. E allora sì che sono guai per tutti.
[Pubblicato su AGICHINA24 il 24 novembre 2010]