Il rebus geopolitico del Mar Cinese Meridionale

In by Simone

Tutti lo vogliono: Cina, Vietnam, Filippine, Taiwan, Brunei e Malaysia. E ora ci si mettono anche India e Usa. Pechino preferisce intavolare trattative bilaterali separate con i singoli stati coinvolti, senza trattare l’argomento nel corso del vertice Asean. Ma non è di questo parere Barack Obama. (In collaborazione con AGICHINA24)
Giù le mani dal Mar Cinese Meridionale, soprattutto quelle a stelle e strisce: ecco il messaggio contenuto nelle parole del premier cinese Wen Jiabao, che nel discorso pronunciato venerdì davanti ai leader dell’Asean (l’associazione che riunisce le nazioni del sudest asiatico) ha escluso l’intervento di qualsiasi stato straniero nella complessa disputa territoriale in corso nelle acque della regione.

La controversia tra le nazioni dell’area prosegue da anni – ha detto Wen nel suo discorso, secondo quanto riporta il ministero degli Esteri di Pechino –  e dovrebbe essere risolta attraverso consultazioni e discussioni amichevoli tra i Paesi coinvolti. Le forze esterne non devono entrare nella questione, con nessun pretesto”.  

L’evidente destinatario del discorso di Wen è Barack Obama, che è giunto a Bali per partecipare alla riunione allargata dell’Asean che si è tenuta sabato. Il Presidente degli Stati Uniti non ha fatto mistero che la risoluzione delle controversie nel Mar Cinese Meridionale rappresenta il primo punto dell’agenda americana per il summit: “L’incontro può essere un’occasione fondamentale per lavorare insieme sulla risoluzione di un ampio ventaglio di questioni, che vanno dalla sicurezza marittima alla non proliferazione” ha detto venerdì Obama in un incontro con il primo ministro indiano Manmohan Singh, anch’egli coinvolto nella disputa.

Il vertice di Bali è la seconda occasione nel giro di una settimana – dopo il summit Asia-Pacific Economic Cooperation che si è chiuso a Honolulu la scorsa settimana – in cui il Dragone cinese e l’Aquila americana si confrontano direttamente sull’Oceano Pacifico, mentre Washington mostra un rinnovato dinamismo nella regione.

Pechino ha già reso noto che per risolvere quel complesso rebus geopolitico che agita il Mar Cinese Meridionale preferisce intavolare trattative bilaterali separate con i singolo Stati coinvolti, senza trattare l’argomento nel corso del vertice.

La Cina avanza di gran lunga le rivendicazioni territoriali più ampie su queste acque, che si reputano ricche di petrolio e gas. Nel corso degli ultimi mesi Pechino ha fronteggiato diverse volte con le sue navi le imbarcazioni vietnamite e filippine che cercavano di condurre esplorazioni nell’area alla ricerca di risorse energetiche: il 9 giugno scorso, ad esempio, Hanoi aveva denunciato la condotta di una nave cinese, colpevole – secondo la versione fornita – di uno sconfinamento mirato a tranciare i cavi di esplorazione posti ad alta profondità dal Vietnam.

Rimasto intrappolato, l’equipaggio cinese aveva richiamato sul posto altre due navi di Pechino, che avevano circondato la nave vietnamita.  All’inizio di marzo si erano verificati incidenti simili con le Filippine: una nave che stava conducendo esplorazioni in un’area contesa nella Reed Bank, al largo delle Isole Spratly, era stata circondata da due imbarcazioni militari cinesi; Manila aveva reagito inviando alcuni aerei nella zona. Le Filippine hanno lamentato negli ultimi mesi almeno cinque sconfinamenti, e sia Manila che Hanoi hanno espresso lamentele formali all’Onu.

Ma nella partita non sono coinvolte solamente Cina, Vietnam e Filippine: anche Taiwan, Brunei e Malaysia sono impegnate a rivendicare le acque intorno alle Isole Paracel e alle Isole Spratly, e a contendersi la sovranità sul gas e il petrolio dell’area. A complicare ulteriormente la questione c’è l’ingresso dell’India, che pochi mesi fa si è affiancata al Vietnam per fornire ad Hanoi le tecnologie necessarie all’esplorazione, suscitando l’ira di Pechino.

E mentre Pechino intende sottrarsi al dialogo multilaterale sulla questione, Manila, forte dell’appoggio degli Usa, punta tutto sul summit balinese: “Questa non è una controversia che può essere isolata esclusivamente alla Cina e alle Filippine – ha detto giovedì il portavoce del presidente filippino Benigno Aquino – ma si tratta di una disputa che coinvolge molte altre nazioni della regione, e più ampio è il numero dei Paesi che riescono a discuterne in un’atmosfera di sincerità, più si avvicina una soluzione”.

All’avvio del vertice Wen Jiabao ha comunque mantenuto una posizione amichevole e moderata su altri fronti, affermano l’impegno della Cina ad aprire verso i partner Asean linee di credito per 10 miliardi di dollari – di cui 4 miliardi in soft loans – che si vanno ad aggiungere ai 15 miliardi di due anni fa.

Ma il confronto a distanza tra Pechino e Washington nelle acque dell’Oceano Pacifico prosegue: “Per gli Usa il Ventunesimo secolo è il secolo del Pacifico” aveva detto la scorsa settimana il Segretario di Stato Hillary Clinton all’apertura del summit Apec.

Il vertice si è chiuso con la sigla di un trattato tra i 21 Paesi riuniti nell’Asia – Pacific Economic Cooperation, che con la firma della Tpp (Trans Pacific Partnership) hanno creato la più grande zona di libero scambio del mondo, un’area che raccoglie quasi 800 milioni di consumatori e il 40 per cento circa dell’economia globale. Una zona di libero scambio che non gode della partecipazione della Cina, e che Pechino interpreta come una mossa di contenimento.

Un containment che non si snoda solamente attraverso misure economiche, ma anche tramite accordi militari: sempre nel corso della settimana, Stati Uniti e Australia hanno deciso che quest’ultima ospiterà una task force marittima americana che arriverà a contare nel 2016 ben 2500 soldati.

Non temiamo la Cina, né cerchiamo di escluderla” ha detto Obama mercoledì a commento dell’iniziativa, che ha subito scatenato la reazione del Dragone: “Intensificare ed espandere le attività militari potrebbe non essere molto appropriato, ed è una mossa che non rientra nell’interesse delle nazioni di questa regione”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino Liu Weimin.

Il dislocamento di truppe Usa in Australia non è diretto alla Cina – ha prontamente commentato il ministro degli Esteri australiano Kevn Rudd – ma nello stesso tempo chiediamo a Pechino di non interferire con le nostre decisioni”.

Intanto anche la stampa cinese si fa sentire sulla questione, qui e lì con toni smorzati, a volte suonando la grancassa della retorica: “Ogni nazione che sceglie di essere una pedina nella partita a scacchi lanciata dagli Usa nel Mar Cinese Meridionale perderà l’opportunità di trarre beneficio dalla crescita economica cinese – si legge in un editoriale pubblicato venerdì dal Global Times di Pechino, noto per le posizioni nazionaliste – e ciò renderà la protezione degli Stati Uniti decisamente meno attraente”.

Il China Daily, quotidiano ufficiale del Partito comunista cinese, invita invece alla calma: “La Cina non deve preoccuparsi per l’offensiva diplomatica scatenata dall’amministrazione Obama nel Pacifico – si legge in un altro editoriale -, Pechino e Washington sono unite da legami saldi e i rischi di un peggioramento delle tensioni vanno minimizzati. Gli Usa vogliono vedere la Cina svilupparsi, ma vogliono assistere a questa crescita secondo le regole del gioco deciso da Washington. Ma la Cina non deve preoccuparsi”.

Nessuna nazione al mondo vuole vedere gli Stati Uniti e la Cina impegnarsi in una vera lotta, con vere spade e vere pistole” conclude il quotidiano di stato.

[Foto credit: newsfilippine.altervista.org]