La condanna di Israele è “una presa di posizione quasi obbligata per Pechino, impegnato a consolidare le relazioni con i paesi arabi, il cui favore rappresenta un elemento cardine nella strategia regionale cinese”, ci spiega Leonardo Bruni, Research Fellow presso il ChinaMed Project del Torino World Affairs Institute (T.wai). In realtà negli ultimi tempi la Cina è parsa voler assumere una postura più “neutrale”. Pur ribadendo l’amicizia granitica con Teheran, ha manifestato una maggiore apertura nei confronti di Tel Aviv.
“Siamo molto preoccupati”. All’indomani all’escalation missilistica tra Iran e Israele, la Cina non nascondeva la propria apprensione nel vedere divampare ancora una volta la crisi in Medio Oriente, regione dove ai tradizionali interessi energetici il gigante asiatico sta aggiungendo fruttuose cooperazioni nei settori finanziario e tecnologico. Ma anche una regione considerata sempre più un laboratorio per testare la maturità diplomatica di Pechino, storicamente restio a farsi coinvolgere nelle tensioni tra gli altri paesi.
Il rappresentante permanente della Repubblica popolare presso le Nazioni Unite, Fu Cong, venerdì ha dichiarato che la Cina “condanna la violazione da parte di Israele della sovranità, della sicurezza e dell’integrità territoriale dell’Iran” e esorta Israele “a cessare immediatamente ogni avventurismo militare”.
“Si tratta di una presa di posizione quasi obbligata per Pechino, impegnato a consolidare le relazioni con i paesi arabi, il cui favore rappresenta un elemento cardine nella strategia regionale cinese”, spiega al Fattoquotidiano.it Leonardo Bruni, Research Fellow presso il ChinaMed Project del Torino World Affairs Institute (T.wai). Dopo la campagna punitiva di Israele in risposta all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, Pechino ha saputo cavalcare il risentimento dei paesi del Golfo verso Tel Aviv e gli alleati occidentali per rafforzare la propria influenza nel Sud globale. In Iran le sanzioni internazionali hanno favorito i piani cinesi.
Il gigante asiatico acquista praticamente tutto il petrolio prodotto dalla Repubblica islamica, con cui nel marzo 2021 ha siglato un accordo ventennale da 400 miliardi di dollari ancora poco chiaro nei contenuti. Secondo fonti del Wall Street Journal, negli ultimi mesi Teheran avrebbe ordinato dalla Cina migliaia di tonnellate di componenti per missili, al fine di ricostruire il proprio arsenale militare e resuscitare le milizie alleate del cosiddetto “Asse della resistenza” in vista dei colloqui con gli Stati Uniti. Sotto la lente c’è un presunto contratto per l’acquisto di perclorato di ammonio sufficiente a produrre 800 vettori balistici, siglato dall’iraniana Pishgaman Tejarat Rafi Novin Co. e Lion Commodities Holdings Ltd., azienda con sede a Hong Kong. Senza contare che, dall’inizio della guerra a Gaza, le navi cinesi in transito nel Mar Rosso hanno apparentemente ottenuto un trattamento preferenziale dagli houthi, mentre i mercantili di Stati Uniti e Regno Unito sono ripetutamente finiti sotto attacco.
Eppure negli ultimi tempi la Cina è parsa voler assumere una postura più “neutrale”. Pur ribadendo l’amicizia granitica con Teheran, ha manifestato una maggiore apertura nei confronti di Tel Aviv: prima con l’incontro tra i rispettivi ministri degli Esteri a margine della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, il contatto di più alto livello dal 7 ottobre 2023. Poi ad aprile con la prima condanna ufficiale dell’attacco di Hamas per bocca dell’ambasciatore cinese nello Stato ebraico. Infine sabato scorso, quando il titolare della diplomazia cinese Wang Yi ha discusso con l’omologo israeliano l’escalation in corso con la Repubblica islamica, sottolineando come “il Medio Oriente non può rimanere perennemente avvolto nell’ombra del conflitto e Israele non dovrebbe continuare a vivere nell’ansia della guerra”.
Certo, c’è la volontà di tornare a fare affari con Tel Aviv e forse prendere le distanze da un Iran molto indebolito. Ma ricalibrando la propria politica estera, Pechino sembra ancora di più ambire a colmare il vuoto diplomatico lasciato dal piano di Trump per l’espulsione del popolo palestinese da Gaza. Un piano respinto anche dall’Europa, che la Cina sta cercando di attirare a sé. Secondo Bruni, proporsi come mediatore imparziale nei conflitti regionali, serve a “differenziarsi da Washington e ad accreditarsi come un attore equidistante e affidabile agli occhi delle diverse parti coinvolte”
D’altronde, oltre la Muraglia, sono in molti a scorge nel nuovo focolaio il tramonto dell’ascendente americano nello scacchiere mediorientale. Lo ha detto chiaramente Liu Zhongmin, direttore del Middle East Studies Institute presso la Shanghai International Studies University: l’escalation in corso tra Teheran e Tel Aviv è “il risultato della posizione strategica sempre più radicale di Israele e un sintomo di come la capacità degli Stati Uniti di controllare il Medio Oriente si sia drasticamente ridotta”.
L’attacco missilistico scagliato da Netanyahu contro l’Iran vanificherà il lavoro di ago e filo fatto finora oppure fornirà a Pechino l’occasione per intervenire con più fermezza? “Le vie diplomatiche per risolvere la questione nucleare iraniana non sono ancora state esaurite e una soluzione pacifica rimane possibile” ha dichiarato sabato Wang Yi, aggiungendo che “la Cina è disposta a svolgere un ruolo costruttivo in questo processo”.
Pechino sta dimostrando una disponibilità crescente a intervenire nelle crisi internazionali. Recentemente ha annunciato la nascita dell’Organizzazione internazionale per la mediazione, un nuovo organismo intergovernativo con sede a Hong Kong, creato per promuovere la risoluzione delle controversie tra stati attraverso la mediazione. “Tuttavia, tale impegno appare principalmente finalizzato alla promozione di una visione internazionale alternativa, con una forte connotazione anti-americana”, avverte Bruni. In realtà, per l’esperto, la Cina pare mancare della volontà e delle capacità necessarie per assumere un ruolo attivo: “Pechino spesso invoca il principio di non ingerenza come giustificazione, sostenendo di poter intervenire unicamente su esplicita richiesta e con il consenso di tutte le parti coinvolte, come nel caso della mediazione Arabia Saudita-Iran nel marzo 2023”.
A complicare il lavoro della diplomazia cinese si aggiunge il raffreddamento dello Stato ebraico. “Attualmente, sia l’Iran che Israele hanno dichiarato chiaramente la volontà di continuare le ostilità. Per quanto la posizione di Teheran potrebbe evolvere, è probabile che Tel Aviv continuerà a ritenere la Cina un interlocutore non affidabile o efficace, percependola troppo vicina agli interessi iraniani”, spiega Bruni. Come sottolineato anche da numerosi analisti cinesi, al netto di tutto, l’unico attore in grado di esercitare una reale pressione su Israele rimangono gli Stati Uniti, le cui forniture militari restano fondamentali per le campagne militari israeliane. Solo Washington è in grado di spingere Netanyahu al tavolo negoziale.
“Una cospicua parte degli esperti e della popolazione israeliana tende ormai a considerare la Cina come una minaccia, soprattutto in ragione dei suoi legami con l’Iran e del suo sostegno per uno Stato palestinese”, spiega l’analista, secondo il quale il recente ammorbidimento non sembra aver cambiato la percezione di Pechino nello Stato ebraico, dove viene ampiamente ritenuto come un player ostile.
E’ una dinamica che – secondo Bruni – non dovrebbe sorprendere: “Il governo Netanyahu reputa negativamente qualsiasi attore internazionale che promuova attivamente la soluzione a due Stati, inclusa la Francia di Macron, nonostante continua a garantire sostegno militari a Israele e a rivendicare pubblicamente il ‘diritto a difendersi’.”
Se a Tel Aviv la nuova strategia cinese non promette bene, alle nostre latitudini convince ancora meno. Con la sua categorica invettiva contro la violazione della sovranità dell’Iran Pechino rischia infatti di macchiarsi di quel “doppio standard” che rinfaccia all’occidente fin dall’inizio della guerra a Gaza. Quando si tratta di difendere i diritti territoriali di Teheran la Repubblica popolare non risparmia critiche. Eppure anche dopo oltre tre anni di conflitto, agli occhi dei leader cinesi, l’invasione della Russia in Ucraina non sembra meritare alcuna condanna.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Ilfattoqutodiano.it]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.