Il futuro del Tibet: Il modernismo del Dalai Lama, il conservatorismo religioso e Lobsang Sangay

In by Simone

Contro ogni aspettativa iniziale, la proposta di ritiro dalla vita politica presentata dal Dalai Lama ha ottenuto il consenso da parte del Parlamento esule tibetano. La richiesta, avanzata circa due settimane fa in concomitanza con l’anniversario dell’inizio dell’esilio, aveva colto molti osservatori di sorpresa, malgrado il Dalai Lama avesse manifestato a più riprese la sua volontà di allontanarsi dal potere temporale.

La situazione che si era venuta a creare aveva prodotto una stasi ai limiti del paradossale: nell’anno delle proteste dei gelsomini e delle pressioni popolari per l’avanzamento dei processi di democratizzazione in Medio Oriente, la massima autorità religiosa e temporale tradizionale tibetana, giunta a 75 anni e al potere da secoli attraverso il sistema di reincarnazione, sembrava non riuscisse ad ottenere l’autorizzazione della comunità tibetana per abbandonare il potere politico.

Mentre la comunità internazionale si chiedeva come sarebbe stato possibile riempire il vuoto lasciato dal Dalai Lama, dopo due giorni di consultazioni il parlamento esule respingeva la sua richiesta. Una decisione che che è stata infine ribaltata soltanto nella giornata di ieri. La situazione tibetana è peculiare, con un popolo –esule e non- enormemente bisognoso di simboli unitari forti, dato il contesto politico che si trova a far fronte. Ma c’è anche chi ha fatto ipotesi diverse, come l’attivista e scrittore tibetano Tenzin Tsundue. Come sottolineato in un suo articolo pubblicato su una rivista tibetana e riportato dall’importante sito di informazione www.phayul.com, Tenzin Tsundue ha evidenziato come la volontà del Dalai Lama sia sempre stata ascoltata in modo indiscusso nel passato.

ll perché di un’ostruzione

Era quindi strano che proprio ora, quando a tutti fosse chiara la volontà di ritiro, si creasse un’ostruzione. Secondo l’autore tibetano, la presa di posizione dei 43 membri parlamentari esuli non sarebbe perciò solo il frutto del timore di mancanza di alternative future data la caratura del personaggio (alla guida della comunità esule dal 1959, vincitore di un premio Nobel, destinatario di un rispetto religioso con pochi eguali al mondo), ma anche l’effetto del tradizionale conservatorismo religioso tibetano, che ha intimidito a più riprese gli elementi più modernisti della comunità esule, come già denunciato da autorità intellettuali come Jamyang Norbu e il Professor Dawa Norbu.

Secondo tale interpretazione, i parlamentari tibetani sarebbero stati titubanti ad approvare le dimissioni perché timorosi che il loro rispetto per il Dalai Lama potesse passare per un entusiasmo oltre le righe, una volontà di sbarazzarsi del Dalai Lama (viste la mancanza di risultati della sua politica verso la Cina) che avrebbe chiamato a sé l’ostilità degli apparati di potere monastici. Effettivamente, il criticismo verso l’attuale classe politica è costantemente cresciuto nel corso dei decenni, e anche se il Dalai Lama ne era rimasto sostanzialmente immune per la riverenza di cui gode tra la grandissima maggioranza di tibetani, la sua politica della via di mezzo era stata più volte messa in discussione.

Le critiche contro la chiusura del sistema politico di Dharamsala sono state però puntualmente ridotte al silenzio. In un simile contesto, nonostante la presa di posizione del Dalai Lama possa sembrare ai più un azzardo, visto lo stato ancora embrionale del processo di democratizzazione e l’attuale mancaza di figure alternative di spessore tra la comunità esule, essa rivela una lungimiranza di vedute.

Il modernismo del Dalai Lama

Se il potere politico fosse rimasto nelle sue mani fino alla sua morte, la stabilità del governo in esilio sarebbe stata messa a rischio dalle ricerche della nuova reincarnazione, che con ogni probabilità avverrà in contrasto con la Cina. Inoltre, si dovrebbe attendere un periodo di transizione tra il ritrovamento del nuovo Dalai Lama e il raggiungimento della sua maggiore età, una fase che storicamente ha portato in Tibet forti tensioni e rivalità politiche. Proprio per questi motivi in passato erano emerse delle bizzarre possibilità alternative al vuoto di potere che la scomparsa del Dalai Lama avrebbe creato: queste ipotesi andavano dalla nomina diretta di un successore all’estinzione della linea di reincarnazione del Dalai Lama, fino anche al passaggio di potere ad altre figure spirituali carismatiche, come la diciassettesima reincarnazione della guida spirituale della scuola dei Karma pa.

La scelta del Dalai Lama invece mira a rinsaldare la volontà di pervenire ad un governo democratico e laico, in linea con le moderne democrazie occidentali. Quella del Dalai Lama è una volontà modernista, come ha avuto modo di dimostrare a più riprese nella sua carriera politica. Dalla sua determinazione potrebbe uscire rinforzata la figura del primo ministro, il Kalon Tripa, eletto proprio in questi giorni e il cui nome dovrebbe essere ufficializzato alla fine di aprile. In realtà, il primo giro di votazioni si era tenuto nell’autunno del 2010, riducendo il numero dei candidati alla posizione. All’epoca alcuni osservatori indipendenti avevano evidenziato l’importanza di queste votazioni, le prime dopo la rivolta del 2008. Wang Lixiong, celebre intellettuale cinese, nonché marito della famosa blogger tibetana Tsering Woeser, aveva evidenziato la necessità che il nuovo Kalon Tripa fosse un tibetano con un vissuto in Tibet e non nato in esilio.

Tale figura avrebbe potuto garantire una maggiore conoscenza della realtà tibetana e delle posizioni cinesi, dando maggiori prospettive di successo nei negoziati per la risoluzione della questione tibetana. Tuttavia, i tre nomi maggiormente indiziati per la vittoria finale sono quelli di figure per lo più formatesi nella comunità esule o all’estero. Questo sembra volere dimostrare che, ancora una volta, nel prossimo futuro l’interlocutore principale immaginato dagli esuli tibetani non sia tanto il governo cinese (con l’obiettivo di una risoluzione effettiva della questione tibetana), ma la comunità internazionale, mantenendo così una conferma indiretta dell’approccio finora avuto verso la questione tibetana; vale a dire: mirare all’Occidente come punto di riscontro e cassa di risonanza di tesi politiche di ispirazione democratiche e nazionalistiche e mettere in secondo piano una possibile svolta verso la realpolitik o una politica di compromesso con il governo cinese.

Chi è Lobsang Sangay

Da parecchio tempo si mormora che il probabile vincitore delle elezioni sarebbe Lobsang Sangay, un tibetano appartenente alla nuova classe politica che al primo turno è stato capace di ottenere la maggioranza dei voti. Giovane ed ex dirigente di una delle organizzazioni più attive e popolari tra la comunità esule (il Tibet Youth Congress); formato all’estero (è il primo tibetano ad avere ottenuto il titolo di dottorato all’università di Harvard), specializzato in diritto internazionale e risoluzione di conflitti internazionali, nonché autore di diversi incontri tra dissidenti cinesi e Dalai Lama, Lobsang Sangay sembra racchiudere nel suo curriculum un vento di fresco rinnovamento. Ad ogni modo dovrà fare molto per tradurre queste aspettative in realtà. Dopo l’annuncio del Dalai Lama, Lobsang Sangay aveva escluso inizialmente la realizzazione del piano di allontanamento del Dalai Lama dalla politica, salvo poi concepire un ruolo politico per la guida dei Karma pa tra la morte del XIV Dalai Lama e il raggiungimento della maggiore età della sua nuova reincarnazione.

La sua formazione all’estero potrebbe non bastare per creare un’alternativa politica reale, per cui sarebbe necessario che dimostrasse maggiore coraggio nel volersi emancipare dalla presenza degli apparati religiosi nella vita politica tibetana. Anche la sua campagna elettorale, a scapito dei grandi mezzi a disposizione detenuti rispetto gli altri candidati, sembra rimanere ancorata a un modello politico che punta molto sui riconoscimenti conseguiti all’estero e poco su altri requisiti, come la conoscenza delle condizioni del Tibet cinese o un disegno politico alternativo alla politica della via di mezzo nella negoziazione della questione tibetana con il governo cinese.

Sarà per il bisogno di simboli nazionali di cui hanno bisogno i tibetani ( e il Buddhismo tibetano stesso, nonostante la sua frammentazione storica, è ormai da considerare uno dei simboli della propaganda nazionalista tibetana in esilio), ma la transizione politica del Tibet resta complessa, specialmente considerando la mancata volontà di cambiamento manifestata dalla popolazione esule, quasi costretta al mutamento. Certo è che l’iniziativa politica del Dalai Lama rappresenta una spinta modernista con pochi precedenti nella storia del Paese delle nevi, in cui il conservatorismo di matrice religiosa continua ad avere radici ben salde.