Il caso più strano è stato quello di Guo Guangchang, il magnate di Fosun, sparito e poi ricomparso a New York. Quello più tragico, ha riguardato invece Xu Ming, fondatore del Dalian Group, morto in carcere. Sembra che negli ultimi mesi, diversi miliardari cinesi siano finiti nel mirino delle autorità. Si punta a far pulizia nel mondo degli affari? Sparisce a Shanghai portato via dalla polizia, ricompare dopo quattro giorni al meeting annuale della sua impresa accolto da una standing ovation e il venerdì successivo lo fotografano a New York mentre cena in compagnia. Tutto sotto rigoroso silenzio, fatta salva qualche indiscrezione che parla di «collaborazione a un’inchiesta sensibile».
È questo il caso anomalo di Guo Guangchang, uno degli uomini più ricchi di Cina, il 48enne a capo del conglomerato Fosun: 100 miliardi di dollari di patrimonio e un’attività tentacolare in settori come assicurazioni, intrattenimento, assistenza sanitaria privata, banche, vendita al dettaglio di prodotti di lusso. Anomalo, perché chi sparisce, in Cina, ricompare di solito dopo settimane, a volte mesi, con una confessione firmata da dare in pasto ai media. Lui no, lui viene intercettato giovedì 10 dicembre all’aeroporto della metropoli finanziaria e mercoledì 16 vola negli Stati Uniti, mentre il suo ufficio stampa riporta che ha avuto il permesso delle autorità per continuare a occuparsi del proprio impero.
Finora, la campagna anticorruzione lanciata dal presidente Xi Jinping aveva colpito soprattutto il mondo della grande industria di Stato, dove si annidano consorterie che vivono di collusioni tra politica e impresa, creando vere proprie nicchie di potere. Il caso simbolo è stato quello di Zhou Yongkang, ex zar della sicurezza e, fino al 2012, uno dei nove uomini più potenti della Cina. Il suo regno era settore petrolifero e aveva creato, intorno a sé, una rete di uomini di fiducia che sono stati fatti fuori con chirurgica precisione, uno a uno. Quanto a lui, l’11 giugno scorso è stato condannato all’ergastolo per corruzione, abuso di potere e diffusione di segreti di Stato. Tutte accuse quasi rituali, che sanciscono la fine di una carriera politica, economica, sono il viatico per l’oltretomba della vita civile.
Quando un funzionario finisce nel mirino, è di solito sottoposto alla pratica extragiudiziale dello shuanggui, che potremmo sintetizzare in «detenzione e interrogatorio»: è tenuto a presentarsi in un dato posto a una data ora, scompare per un tempo indefinito, ricompare confessando tutto. La pratica è da tempo condannata dalle maggiori organizzazioni umanitarie, che denunciano inquirenti, o forse inquisitori, fin troppo zelanti. Guo invece – che è membro dell’Assemblea Consultiva del Popolo, l’organismo dove il potere cinese coopta le eccellenze imprenditoriali del Paese – ne esce pulito come una verginella. E qui sta il mistero, condito da un retrogusto da spy-story dell’era digitale. Venerdì 18 dicembre, tale Hu Yixiao, pubblica su un social network cinque immagini del boss di Fosun sulla 53esima strada a New York. «Stasera sono andato in centro a cena e ho incontrato Guo. Sembra essere di buon umore», scrive.
Fatto sta che dall’estate scorsa, quando le borse di Shanghai e Shenzhen sono improvvisamente impazzite, con vendite record che hanno fatto traballare la tenuta del sistema finanziario cinese, le attenzioni della potentissima Commissione di Ispezione e Disciplina – l’agenzia anticorruzione del Partito – si sono rivolte ai mercati e al settore privato. Secondo costume, quando si verifica qualche disastro bisogna trovare uno o più colpevoli e ristabilire l’ordine celeste: vale per la frana che ha distrutto un parco industriale a Shenzhen, così come per gli scossoni di borsa.
Negli ultimi mesi, otto squadre di ispettori hanno così passato al setaccio 14 istituzioni finanziarie. Secondo le stesse autorità penali, tra gennaio 2014 e giugno 2015 sono stati indagati 877 operatori del settore per abuso di potere e corruzione. Circa la metà erano sospettati di avere offerto o preso tangenti. Il 75 per cento lavorava in banca e il 25 per cento nel settore assicurativo e dell’intermediazione finanziaria. Il numero di casi segnalati è poi aumentato esponenzialmente proprio a partire dal default delle borse, a metà giugno.
Xu Xiang, detto il «Carl Icahn della Cina» dal nome del più famoso corporate raider statunitense – cioè un tipo che compra azioni per rivenderle subito e ottenere immensi profitti – è stato arrestato il primo novembre nella natia Ningbo dopo un inseguimento stradale degno del vecchio telefilm «Sulle strade della California». Mentre le borse andavano in malora e 80 milioni di piccoli risparmiatori trattenevano il fiato, lo speculatore 37enne totalizzava un 300 per cento di profitti attraverso il suo fondo d’investimento Zexi, che gestisce circa 20 miliardi di yuan (oltre 2,8 miliardi di euro). Xu passa per individuo estremamente frugale: non beve, non fuma e non gioca a carte, si presenta in ufficio alle 8.45 di mattina e lavora fino alle 2 di notte, sempre appiccicato agli indici di borsa. Sono famose alcune sue mosse a sorpresa, come nel 2012, quando comprò il Chongqing Beer Group che era in caduta libera e che improvvisamente spiccò il volo. Fortuna? In quei giorni, dicono i ben informati, Xu andava consigliando amici e conoscenti di non acquistare assolutamente titoli del birrificio, perché soggetti a «rischi incontrollabili». Ora, dopo l’inseguimento per le strade di Ningbo, il corporate raider più famoso di Cina è accusato di insider trading.
«Lo Stato cinese è all’attacco dei dannosi short seller», riportava l’agenzia di stato Xinhua a settembre, quando fu arrestato Cheng Boming, l’ultimo amministratore di Citic Securities, la più famosa agenzia cinese di intermediazione finanziaria. L’accusa è anche qui insider trading attraverso le «vendite allo scoperto» (short selling), la pratica speculativa famosa anche in Europa per gli attacchi ai debiti sovrani del 2011, quella che permette di scommettere «contro» un asset. In quei giorni, spariscono altri dirigenti dell’agenzia che, invariabilmente, ricompaiono a mezzo stampa confessando le proprie colpe.
Zhang Yun si dimette dalle proprie cariche di presidente, amministratore e vice segretario del Partito comunista all’interno dell’Agricultural Bank of China a dicembre, dopo che un mese prima era stato «portato via per collaborare a un’indagine», secondo quanto riportano siti finanziari cinesi. È il più alto funzionario del sistema bancario a finire nelle maglie dell’anticorruzione. Dal 18 novembre è invece «irreperibile» Yim Fung, presidente della divisione di Hong Kong della Guotai Junan, un’altra grande società di brokeraggio.
Ma caso più misterioso è quello di Xu Ming, fondatore del Dalian Group e ottavo uomo più ricco di Cina nel 2005. Era stato testimone chiave nella telenovela giudiziaria di Bo Xilai, il leader comunista di Chongqing, già astro nascente della nomenklatura condannato all’ergastolo nel 2013 per corruzione. Detenuto lui stesso per avere girato mazzette a Bo e a sua moglie Gu Kailai, Xu avrebbe dovuto uscire di galera nel 2016, ma il 4 dicembre è stato rinvenuto cadavere nella sua cella del carcere di Wuhan: attacco di cuore, secondo la versione ufficiale, ma la famiglia afferma che stesse benissimo.
Ultimo in ordine di tempo, il 7 gennaio scompare Zhou Chengjian, presidente del gruppo Meterbonswe, una sorta di H&M o Zara cinese, 65esimo uomo più ricco di Cina nel 2014.
Ha senso collegare tutti questi casi di miliardari che scompaiono, qualche volta per sempre? L’impressione è che non si tratti solo di vendetta politica o di esempi da additare al Paese. C’è anche l’esigenza di fare piazza pulita prima che la Cina si incammini sulla strada del Piano Quinquennale 2016-2020, quello che dovrebbe renderla un’economia evoluta, dove la finanza giochi un ruolo fondamentale.
Liu Junchao, il vice direttore dell’Ufficio Nazionale per la Prevenzione della Corruzione ha detto di recente che «la lotta al malaffare nel settore delle imprese contribuirà a migliorare il clima degli investimenti. Tutte le aziende che rispettano la legge daranno la loro approvazione alla campagna, perché quando investono e fanno affari traggono beneficio da un clima equo e imparziale». Come contraddirlo? Liu è a capo dell’Operazione Sky Net, il tentativo di far estradare in Cina 100 tycoon accusati di corruzione che sono fuggiti all’estero. Di questi, finora le autorità di Pechino ne hanno acchiappati 17, quasi tutti rimpatriati dai Pesi della vicina Asia che con la Cina hanno un rapporto simile a quello degli antichi «stati tributari» con l’Imperatore Celeste.
E si torna al caso di Guo Guangchang, l’uomo che invece di scomparire o essere riacciuffato per la coda viene lasciato libero di cenare a Manhattan. Una variabile impazzita nel mistero dei miliardari cinesi finiti sulla graticola.
[Scritto per Il Venerdì di Repubblica]