Il “made in China 2025”, un pericolo o un’occasione per l’Italia?

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

Mentre i negoziati commerciali procedono a singhiozzo, tra gli analisti permane la convinzione che una tregua tariffaria non basterà a sopire le rivalità tra Washington e Pechino. Il motivo è riassumibile nella sigla “Made in China 2025”, il megaprogetto lanciato nel 2015 dal ministero dell’Industria e dell’Information Technology (Miit) con il contributo di 150 esperti della China Academy of Engineering. L’iniziativa trae ispirazione da Industry 4.0, il piano adottato otto anni fa dalla Germania per integrare la tecnologia IT alla produzione, ma nasconde aspirazione ben maggiori. Innanzitutto, quella di avviare una trasformazione industriale basata sull’innovazione e le nuove tecnologie capace di dare nuovo impulso all’economia nazionale, un tempo trainata dal binomio export-investimenti.

“Made in China 2025 è un piano intermedio basato sull’assunto che i costi del lavoro nel paese sono aumentati tanto che non è più possibile considerare la Cina come il workshop produttivo a basso costo del mondo”, spiega al Manifesto Giuliano Noci, Prorettore del polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, sottolineando come il traguardo finale sia quello di “acquisire una rilevante competenza in ambito tecnologico con l’obiettivo rendere la Cina una potenza tecnologica su scala planetaria entro il 2050.”

Si tratta quindi di ricalibrare completamente l’industria cinese per renderla più efficiente e integrata così da scalare la catena di valore globale. “Il piano poggia su analisi di contesto inconfutabili ed è in linea con la pianificazione economica di lungo periodo tipica della Cina”, commenta Noci, “ma l’ambizione del progetto ha fatto rizzare le antenne a molteplici attori del mondo occidentale, Stati Uniti in primis.” In gioco non c’è solo la “rinascita nazionale” promessa dal presidente cinese all’inizio del suo mandato, bensì la leadership globale in una decina di settori strategici che, non a caso, compaiono parzialmente nella lista dei prodotti colpiti dalle sanzioni americane: robotica, attrezzature medicali, semiconduttori, prodotti legati all’industria aerospaziale, e tecnologia di comunicazione, a cui si aggiunge il settore farmaceutico per ora esentato dai dazi a causa della forte dipendenza degli States dalle forniture cinesi.

“Il focus commerciale è una deriva di carattere squisitamente elettorale” mentre il reale motivo della controffensiva americana va rintracciato “nel sorpasso cinese per quanto riguarda diverse tecnologie, prima tra tutte il G5”. A preoccupare Washington è soprattutto il ruolo giocato dal Partito-Stato attraverso lo stanziamento di sussidi e sgravi fiscali volti a rendere il gigante asiatico autosufficiente – e quindi immune alle ritorsioni americane – nella produzione di componenti e materiali di base. Proprio il tema degli incentivi statali – ingrediente imprescindibile del “socialismo con caratteristiche cinese”- viene considerato il vero scoglio contro cui si sono arenati i colloqui commerciali dello scorso maggio. Pechino è irremovibile: il modello economico cinese non si tocca. Eppure, dall’inizio della trade war il progetto “Made in China 2025” è scomparso dai radar mediatici, sopravvivendo solo nelle velate allusioni della stampa statale al perseguimento di tecnologia “indigena”. E perlopiù in riferimento alla creazione di sinergie internazionali rigorosamente “win-win” in cui l’Europa, sponda preziosa nella resistenza contro Washington, costituisce l’interlocutore privilegiato. “’Made in China 2025’ open to all” titolava nel marzo 2018 il Global Times.

Può davvero il peggiore incubo degli Stati Uniti diventare un’occasione per il Vecchio Continente?

“Sicuramente il piano pone le imprese occidentali di fronte alla necessità di rivedere la logica con cui approcciare il mercato cinese e competere su scala globale”, spiega Noci puntando il dito contro l’assenza di investimenti significativi nell’innovazione e la difesa di “sterili principi” che rischiano di penalizzare l’industria europea”. Un esempio? “La non accettazione della fusione tra Alstom e Siemens da parte dell’antitrust in nome di una pulizia tecnica senza senso ha impedito all’Europa di raggiungere quell’economia di scala necessaria per poter competere con i giganti cinesi e globali”, spiega Noci.

Insomma, il Vecchio Continente avrebbe seriamente bisogno di un suo “Made in Ue 2025” con cui “orientare gli investimenti in domini scientifici molto chiari.” Non servono “strategie a pioggia” ma un impegno economico “focalizzato negli ambiti in cui l’Europa vuole raggiungere la leadership globale”. In questo frangente, proprio come in Cina, il ruolo dello stato (entro i limiti previsti dalla WTO) ha la sua importanza. “Bisogna constatare che le grandi innovazioni a livello globale sono sempre arrivate grazie a incentivi statali”, precisa il professore, “gran parte della tecnologia che utilizziamo oggi è il frutto dell’ondata di investimenti fatti dal governo americano in ambito militare.”

In barba alle critiche, Germania e Gran Bretagna hanno già trovato punti di raccordo con il piano industriale cinese. E l’Italia?

“Perché un paese come l’Italia possa tenere testa alla Cina è necessario creare un’unità strumentale a livello di Presidenza del Consiglio dei Ministri che supporti specificatamente gli affari con il paese. Non c’è altro modo”, spiega Noci, “a livello ministeriale, come fatto finora, la scala dei cinesi prevale sempre.” Secondo il professore, l’Italia ha due carte piuttosto rilevanti da giocare: “punto uno, il posizionamento logistico geostrategico al centro del Mediterraneo e di fronte all’Africa, il continente che crescerà di più nei prossimi 50 anni. Questo è un vantaggio che va sfruttato non come hanno fatto i greci, ovvero consegnando alla Cina le chiavi del Pireo, ma piuttosto giocando una partita di business congiunta per generare eventuali opportunità di joint venture.”

A ciò si aggiunge “l’incredibile capacità d’innovazione che purtroppo l’Italia non sa sviluppare in business su larga scala”, come dimostrano i casi di Pizza Hut e Starbucks. “Questi due elementi sono estremamente importanti e ci permettono di sedere al tavolo con i cinesi e chiedere tutta una serie di contropartite lavorando su temi d’innovazione, che siano sempre nel pieno rispetto del Patto Atlantico”, aggiunge Noci intravedendo possibili sinergie nei temi infrastrutturali e ambientali lungo la nuova via della seta, dove “i cinesi hanno bisogno di partner per diluire quel percepito di potenza imperiale colonizzatrice”.

Compreso nella lunga lista di accordi siglati durante la trasferta romana del presidente Xi Jinping, il settore aerospaziale si presta alla “creazione congiunta di servizi a supporto dell’imponente logistica della nuova via della seta. Soprattutto quelli che hanno nel satellite una delle componenti fondamentali per il monitoraggio di rete e binari. Ma è chiaro che in tutto questo non si devono toccare tecnologie che fanno parte di infrastrutture strategiche, come il 5G.” Un tasto dolente per il Belpaese che negli anni ’90 ha deciso di disinvestire da Italtel ed Elettra autoescludendosi dal novero dei paesi produttori di telecomunicazioni.

Per Noci, l’acquisto di tecnologia strategica da paesi terzi – a prescindere dalla nazionalità – richiede contromisure al momento insufficienti. “L’Italia ha bisogno di un’agenzia con forte valenza tecnologica che si faccia carico non solo di certificare tutti i prodotti che acquista, ma che monitori anche in tempo reale la sicurezza delle proprie reti”, avverte il professore, “servono condizioni sistemiche, strutturali e permanenti. La Golden Power non fa nulla di tutto questo.”

[Pubblicato su il manifesto]