Il Giappone ora è il paradiso dei bitcoin, e lo sanno anche i ladri

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58 miliardi di yen, circa 430 milioni di euro. È l’entità del più grande furto di criptovalute della storia, avvenuto in Giappone. Ma Tokyo al momento non pone restrizioni. E il giro di vite annunciato a Seul e Pechino devia i flussi dei bitcoin verso il rifugio giapponese


Venerdì sera, notte fonda. Koichiro Wada e Yusuke Otsuka sembrano due impiegati di una grande azienda del terziario tokyoita. Solo che a differenza di tanti salaryman al venerdì sera — giorno della bevuta aziendale — hanno ancora indosso il loro completo nero e la cravatta. Con lo sguardo preoccupato e l’atteggiamento, frequente per i giapponesi, di chi sa di avere tradito la fiducia dei propri clienti, i due giovani fondatori di uno dei più importanti wallet di monete virtuali del Paese — Coincheck, un sito di scambio, pagamenti e prestiti in bitcoin — sono in una fredda sala della Borsa di Tokyo. Di fronte a loro, decine di giornalisti.

I due hanno convocato una conferenza stampa per annunciare il furto di 58 miliardi di yen in bitcoin — Nem — e l’impegno dell’azienda per rintracciare i fondi sottratti. “I vostri bitcoin sono sempre protetti” recita il sito internet aziendale. “Gestiamo wallet offline su server ridondanti e distribuiti. Di conseguenza, i vostri patrimoni sono totalmente protetti, anche se il nostro sistema dovesse essere danneggiato da disastri quali incendi”. Le misure antiincendio c’erano tutte. Qualcosa non ha funzionato però sul lato della cybersecurity. La sera del 26 gennaio, qualche ora dopo la conferenza stampa di Wada e Otsuka, infatti, sotto gli uffici di Coincheck si riuniscono decine di utenti del portale. Sono ansiosi di sapere che ne è stato dei loro soldi.

Quello di Coincheck è il secondo caso in pochi anni di hackeraggio milionario di un sito che tratta bitcoin in Giappone. La prima volta nel 2013: allora toccò a Mt. Gox, uno dei pionieri della criptovaluta. Allora sparirono 744mila bitcoin dal valore di 409 milioni di dollari. La vicenda, soprattutto per quanto riguarda i risarcimenti a chi aveva eseguito operazioni in criptovaluta, ancora non è chiusa.

Ai bitcoin da più parti vengono associate truffe, casi di evasione fiscale, riciclaggio e persino legami con il terrorismo internazionale. Il governo giapponese al momento, però, non sembra preoccupato dai bitcoin come altri governi asiatici. L’anno scorso Tokyo ha riconosciuto il bitcoin come metodo di pagamento ufficiale. Oltre 10mila esercizi in tutto il Paese accettano pagamenti in criptovalute. Di più, nel 2017 le transazioni yen-bitcoin, scrive il Nikkei Shimbun, primo quotidiano economico giapponese, rappresentano il 40% del totale globale. Naturalmente la quota potrebbe aumentare, aggiunge il quotidiano, se il governo dovesse ulteriormente deregolamentare il settore negli anni a venire.

Un’ipotesi in controtendenza rispetto al resto del mondo. In particolare, nelle scorse settimane sono circolate voci trapelate dall’amministrazione cinese circa la chiusura dell’accesso alle principali piattaforme di scambio locali ed internazionali e a un giro di vite sulle transazioni in bitcoin anche da parte della Corea del Sud. Lo scorso autunno, la Banca centrale cinese aveva imposto ai più grandi operatori dell’ecommerce cinese di chiudere tutte le operazioni in valute virtuali. Da questa settimana, in Corea del Sud, sarà illegale possedere conti anonimi per gli scambi in bitcoin e il ministero della Giustizia ha già annunciato una proposta di legge per vietare tout-court le operazioni in valute virtuali. Anche Germania e Francia proporranno una serie di regole sulle transazioni virtuali durante il prossimo G20 dei ministri economici e dei governatori delle banche centrali che si terra a marzo in Argentina.

Le notizie hanno provocato un crollo delle quotazioni in borsa dei bitcoin. Corea del Sud e Cina erano infatti tra i Paesi dove era più alta la domanda, e quindi il prezzo, delle valute virtuali. Secondo un ricercatore dell’istituto bancario Nomura, interpellato ancora dal Nikkei, i provvedimenti dei governi cinese e sudcoreano potrebbero indirizzare verso il Giappone i flussi dei bitcoin della regione, dove sono già molto diffuse le forme di pagamento virtuale. Per aggirare i blocchi governativi, basterà avere delle conoscenze in Giappone a cui inviare i token– i “pacchetti” a cui è assegnato un valore, alla base degli scambi in criptovaluta — e il gioco sarà fatto. Insomma, Tokyo potrebbe trasformarsi in un paradiso fiscale per le monete virtuali. È stato lo stesso ministro delle Finanze giapponese Taro Aso a dichiarare di non voler «regolamentare tutto a tutti i costi».

Dopo il caso Mt. Gox, Tokyo è sicura di avere preso tutte le precauzioni e salvaguardie del caso, adottando ad esempio, in anticipo sulle economie avanzate del mondo, un sistema governativo di registrazione degli scambi in bitcoin. Ma i margini di rischio rimangono, come dimostra il caso Coincheck, sono legati soprattutto a dove vanno e da dove arrivano i token e, alla fine, potrebbero convincere Tokyo a seguire l’esempio di Cina e Corea del Sud.

di Marco Zappa

[Pubblicato su Eastwest]