Il suo ultimo libro, Brothers, pubblicato in Italia da Feltrinelli, ha frantumato i record di vendita nel suo paese. Eppure la fama dello scrittore cinese Yu Hua non dipende dai commenti lusinghieri alle sue opere. Per alcuni critici la sua è «letteratura spazzatura», piena di volgarità e idiozie. Per altri è il cantore della nuova Cina, oscillante tra collettivismo e individualismo, ricettacolo di violenza e vitalità, dramma e commedia. Forse è per questo che Yu Hua mischia piani narrativi diversi, tingendo di dramma eventi comici e di elementi grotteschi narrazioni drammatiche, tese, violente nella sconfinata irruenza del destino e della storia nella vita quotidiana dei protagonisti dei suoi romanzi.
In Cronache di un venditore di sangue la storia cinese viene letta attraverso le sue ripercussioni nelle vicende personali del suo protagonista. In Brothers, invece, il ritmo è scandito dalle vicende personali dei protagonisti. L’operazione che lo scrittore vuol compiere ha sempre un alto tasso di complessità, più di quanto le trame dei due libri, rapide, ritmate e spassose, non esprimano a una prima lettura. L’incipit di Brothers, che tante critiche ha avuto, vede un bambino colto durante la rivoluzione culturale a spiare le nudità femminili nei bagni pubblici, pagine dopo ritroviamo il protagonista diventato ricco. Ma Yu Hua non vuole esprimere giudizi, preferisce rimanere un narratore distaccato. Ma così facendo scandaglia le nuove tendenze di una società in perenne evoluzione ed equilibrismo tra tradizione e modernità, passato e futuro e che così finisce per essere schiacciata da un presente che non accontenta nessuno.
Yu Hua è un buon affabulatore, che ha sempre una brillante battuta per ribattere al suo interlocutore. Spesso, le sue interviste si perdono tra battute da spaccone e frecciate al fulmicotone. Un tempo, quando era intervistato, sparava a zero su tutti, perché sapeva che nessuno dei giornalisti ufficiali cinesi lo avrebbe mai pubblicato. Ora, invece, dopo una certo allentamento della censura che ha portato i media a pubblicare anche temi non «graditi» alle autorità, ha aggiustato il tiro, mantenendo tuttavia la sua capacità critica. Recentemente, ha pubblicato un articolo in seguito al terremoto del Sichuan e alla ricezione mediatica occidentale dei fatti cinesi, finendo per alimentare una discussione abbastanza turbolenta. L’articolo altro non era che l’introduzione al numero della rivista Colors che, in occasione del terremoto, aveva selezionato 30 immagini da inviare a 30 monaci tibetani sparsi per il mondo perché pregassero per quella disgrazia. Yu Hua non si è tirato indietro e ha concluso il suo articolo con una provocazione: «se, un giorno, i media occidentali si metteranno a guardare la Cina da un punto di vista cinese, riusciranno a dare una risposta alla seguente domanda: perché la Cina, pur essendo cambiata, è ancora altro dall’Occidente? Tutto sommato la ragione è estremamente semplice. Il passato della Cina è differente dal passato dell’Occidente, perciò lo è anche il suo oggi».
Nei suoi libri, si pensi a «Torture», ha scritto di storie violente, di perdita di valori, dell’alienazione che contraddistinguono la società cinese contemporanea. Sono questi gli elementi che contraddistinguono la sua visione della realtà?
Scrivo degli elementi che ricorrono continuamente nella società cinese, ma anche in altre realtà.
In «Brothers» ha affrontato il tema della rivoluzione culturale in Cina. Per chi cinese non è si tratta di un periodo poco conosciuto: come lo definirebbe sinteticamente?
Per raccontare la rivoluzione culturale non è sufficiente un libro. Durante quel periodo accaddero tante cose, alcune buone, altre meno buone. Io l’ho vissuta durante la mia infanzia e non mi ricordo molto di quello che accadeva. Ho però il ricordo di sensazioni che mischiano paura a felicità. Paura perché poteva accadere che qualcuno bussasse alla porta di casa dicendo: «la rivoluzione arriverà e giustizierà i colpevoli!» In quel caso, i miei genitori mi svegliavano nel mezzo della notte e ci trasferivamo in un’altra e più grande abitazione, dove incontravamo altre famiglie. Non capivo cosa accadesse in quelle circostanze, ma capivo perfettamente dalle loro facce che avevano paura. Tuttavia quando incontravo i miei amici in questa casa, mi sentivo felice. Potevamo giocare dalla mattina fino a quando non ci mandavano a dormire.
A volte pare che ai cinesi non importi molto ricordare, sembra che non diano una importanza particolare al proprio passato. Cosa pensa di una vita tutta incentrata sul presente?
Oggi la vita in Cina è migliore di qualche tempo fa e per questo a molti non interessa ricordare il passato. Neanche le autorità vogliono che i cinesi ricordino la nostra storia recente. Una forma molto importante per aiutare a mantenere viva la memoria è l’educazione. In Cina, però, il governo ha cancellato parti importanti della nostra storia, impedendo alle nuove generazioni di conoscere ciò che è accaduto. E i padri, invece di partecipare all’educazione dei loro figli, passano il tempo cercando di fare sempre più soldi. Noi scrittori cinesi, che non abbiamo altro da fare, dovremmo trovare il tempo di ricordare.
La nuova generazione letteraria cinese conosce anche il successo editoriale. Che cosa pensa dei giovani scrittori?
In primo luogo, devo dire che non hanno vissuto la Cina di «prima». Non hanno cioè sperimentato torture, né hanno sofferto tutte le cose che invece ha subito la mia generazione. Scrivono con una prospettiva molto differente rispetto alla mia. Per questo nessuno di loro scriverà mai libri che toccano le tematiche che altri scrittori, come me, invece affrontano.
E della società cinese contemporanea cosa pensa?
Non è facile dire se la società in cui vivo mi piace o non mi piace. Ci sono aspetti che apprezzo e cose che non mi vanno per niente bene. Ho spesso sostenuto che la Cina di oggi è la più disperata e la più bella di tutte le società. Ma il fattore che più mi sorprende è che questi due elementi coesistono all’interno della stessa realtà.
Lei prima di diventare uno scrittore era un dentista. Come ha maturato l’idea di far diventare la scrittura il suo lavoro?
In primo luogo devo spiegare che il dentista, mestiere che ho fatto dal 1978 al 1983, è un lavoro che non fa guadagnare molti soldi a differenza di quanto accade in Occidente.
In quel periodo, in Cina i dentisti erano poveri e i loro compensi erano uguali al salario di un operaio. Lavoravo duramente e tutti i giorni ero costretto a vedere bocche spalancate. Non era proprio un bel lavoro, perché erano bocche piene di denti sporchi o cariati. Nel nostro sistema sociale però c’erano dei centri culturali e le persone che vi lavoravano erano tutto il giorno per strada. Così, quando le incontravo, chiedevo: «perché non lavorate?»; e loro mi rispondevano: «è proprio per strada che lavoriamo». Ho pensato: Se scrivo e pubblico un racconto posso però andare a lavorare in qualche centro culturale. All’epoca i cinesi non avevano il potere di scegliere il lavoro. Ora non è così, ma negli anni Ottanta il lavoro era assegnato dallo Stato. Pubblicando un racconto avrei però potuto chiedere di essere trasferito. In principio, l’impeto che mi ha spinto a scrivere è stato il pensiero di non fare più il dentista ma di stare per strada, grazie a un lavoro diverso da quello che mi costrigeva a guardare quelle brutte bocche piene di brutti denti. È così ì ho cominciato a scrivere.
In Cina hanno dovuto aspettare dieci anni perché uscisse «Brothers». Come mai così tanto tempo tra i suoi due ultimi romanzi?
Tra il romanzo precedente e Brothers mi sono dedicato alla scrittura di molti sanwen (genere letterario consistente in una forma di scrittura breve dal contenuto estremamente variegato, dalle descrizione di luoghi, alle proprie opinioni sui fatti avvenuti, n.d.r.). Prima di Brothers, quando finivo di scrivere un libro avevo bisogno di circa due anni per dimenticarlo, altrimenti avrebbe potuto influenzarmi nella scrittura dell’altro libro. Per questo, mi sono dedicato interamente ai sanwen. Avevo deciso di non scrivere più libri. Anni dopo ho capito che stavo commettendo un grosso errore. La vita dell’uomo ha un limite biologico e bisogna suddividere i propri anni in modo molto razionale. Nello scrivere i sanwen, l’impegno fisico e mentale non è molto alto. Invece per scrivere un libro o un romanzo ci vuole un grandissimo impegno. Ora ho deciso di scrivere romanzi, poi quando sarò vecchio, mi dedicherò ai sanwen. Avevo anticipato il lavoro che avrei dovuto fare da anziano e ho capito che avevo commesso un grande errore.
I suoi libri hanno mai avuto problemi con la censura?
Non mai avuto nessuno problema con le autorità per il mio lavoro di scrittore. Il film tratto da un mio libro (Vivere!, del regista Zhang Yimou, n.d.r.) è stato invece censurato. Ancora oggi in Cina non lo possiamo vedere. Il libro invece lo puoi tranquillamente trovare in ogni libreria, così come Brothers. Sono molto soddisfatto della mia posizione di scrittore: la Cina non mi darà mai un premio, ma mi permette di pubblicare. Mi tollerano ma non mi premiano. A me va bene così.
Qual è il suo scopo come scrittore?
Fare il mio lavoro nel modo migliore, scrivendo cioè al meglio ogni libro che scrivo. Se non sono soddisfatto del romanzo non lo faccio uscire. Prima di Brothers ho cominciato a scrivere un libro che non ho finito. Non sono soddisfatto e quindi rimane nel cassetto e non lo faccio uscire. Non voglio deludere i lettori.
Qual è secondo lei il ruolo che dovrebbero avere gli scrittori cinesi?
Non so rispondere per gli altri scrittori, ma per quanto mi riguarda voglio mantenere la mia indipendenza e il mio spirito critico. Sono molto interessato a raccontare la storia recente del mio paese e attraverso la letteratura riesco a farlo. Voglio tuttavia raccontare il passato partendo dal punto di vista che ho del presente.
È comunque impossibile scrivere la storia della Cina. La storia di questo paese ha già tremila anni e fino ad adesso c’è stata sempre un’autorità che ha controllato e che ha scritto la storia. Forse il dovere degli scrittori cinesi è più pesante di altri proprio per questo. Se mai accadesse che i lettori dei miei libri decidano di studiare la storia del loro paese in base a quanto ho raccontato, potrei dire di avere fatto bene il mio lavoro.
Che cosa pensa di internet, delle nuove potenzialità per comunicare e per scrivere?
È sicuramente un progresso. Prima c’erano i giornali, le televisioni, le pubblicazioni ufficiali: erano i soli mezzi a disposizione per esprimere la propria opinione Ora non è così. Faccio un esempio: i Giapponesi hanno inventato il karaoke e ora in Cina ci sono milioni e milioni di persone che sanno cantare. Diciamo che attraverso Internet tutti possono diventare scrittori, facendo diventare la scrittura un lavoro alla portata di tutti.
[pubblicato su Il Manifesto del 25 febbraio 2009]
[foto da: images.china.cn]