I mangiatori di Buddha di Barbara Demick, ovvero come ci siamo dimenticati del Tibet
“Il più grande plateau di tutta la Terra è scomparso”. Per ritrovarlo, si può cominciare a cercare tra le pagine de I mangiatori di Buddha, di Barbara Demick (Iperborea, 368 pag). A metà tra il reportage e il romanzo corale, in questo testo Demick recupera frammenti perduti della cultura tibetana provando a riaccendere un faro su un popolo di cui sembriamo aver perso le tracce.
Scrittrice e giornalista americana, lavorava per il Los Angeles Times durante i suoi sette anni in Cina (ironicamente, non in Tibet) durante i quali ha raccontato anni cruciali del Paese asiatico nel pieno della sua crescita. Del Tibet, però, ha conservato fino a questo momento le storie più intime, raccolte viaggiando in luoghi oggi pressoché inaccessibili agli occidentali (ma anche agli stessi cinesi).
“Negli Stati Uniti teniamo molto al tema dell’appropriazione culturale” racconta Demick a GariwoMag. “Ma le storie in questo libro sono di persone che non hanno modo di raccontarle e per questo la mia posizione di privilegio nel condividerle è stata accolta con favore sia dai protagonisti che dai lettori”.
Parlare di Tibet oggi sembra quasi anacronistico e recuperarne le voci appare come uno sforzo di memoria. Non è un caso. C’è infatti un problema con la memoria storica: è facilmente manipolabile. Così il Tibet è passato negli anni da simbolo di lotta identitaria a meta turistica inflazionata. Il supporto al popolo tibetano da parte della comunità internazionale, ostinato e partecipe fino al 2008 delle proteste di Parigi e del tentato boicottaggio delle Olimpiadi ospitate in Cina quell’anno, soppiantate dall’ultima campagna di social activism ad avere momentaneamente catturato la nostra empatia. Il Tibet, questo sconosciuto.
“Da una parte il governo cinese è riuscito a contenere la diaspora tibetana che divulgava la maggior parte delle informazioni sul territorio”, commenta a proposito Demick. “Ancora oggi è difficile per i tibetani contattare parenti all’estero e si tende a non farlo per non avere problemi”. C’è poi una componente legata alla sempre più complessa capacità di affezionarsi a una vicenda, sovraccarichi come siamo di quel flusso di informazioni costante ed emotivamente drenante, che ha così lasciato alcune questioni in secondo piano. “Quello che fa notizia è la violenza e i tibetani non sono violenti. Dagli anni Novanta a oggi non ho trovato un singolo caso di violenza da parte di un tibetano a un cinese e durante la rivolta del 2008 i tibetani ci hanno davvero provato a non attaccare nessuno, prendendo di mira piccole attività commerciali”, continua Demick.
È anche per questo che l’autrice sceglie di catapultare il lettore nella parte più violenta e riottosa del Tibet: Ngaba. Teatro delle auto-immolazioni più cruente, è qui che la forma di protesta contro la sinizzazione ha trovato maggiore riscontro. “Sono specializzata in microcosmi e qui ho trovato quello che più rappresentava la comunità tibetana, lontano dalla mercificazione di grandi città come ad esempio Lhasa”.
Come tipico dei volumi curati da Iperborea, la cornice romanzesca non preclude la dovizia di dettagli e lo sguardo analitico. Così I mangiatori di Buddha è un romanzo che sa di inchiesta e un reportage che racconta storie. Un ibrido vincente che scorre senza problemi e trasporta il lettore in una realtà ormai trascurata dai media e dalla letteratura. Il Tibet non è più pop, ma esiste ancora. Ed esiste grazie alle storie dei suoi cittadini, dilaniati da uno scontro interiore che li vede sì repressi nella loro identità culturale, ma anche grati al governo cinese per il progresso economico a cui hanno potuto partecipare. “Sono convinta che se potessero anche solo continuare a studiare la loro lingua, a vivere la propria cultura in una dimensione privata, per molti tibetani sarebbe abbastanza”, racconta Demick.
Una prospettiva intellettualmente onesta, che va oltre alla semplice demonizzazione della Cina e del Partito comunista e sceglie invece di raccontare la complessità delle cose. Così la Cina non è nemica ma forestiera. I tibetani, invece, spesso dipinti dai media come passivamente oppressi e senza capacità di azione, ritrovano forza e umanità nel racconto di Demick. Come descritto da una protagonista del libro, una giovane donna, Dalma, che trova l’indipendenza grazie al lavoro: “Provava più commiserazione che ostilità verso questi han (nativi cinesi, ndr). Però non ne voleva altri nella sua città” recita il libro.
È lei il personaggio preferito di Demick: “Ho imparato molto da lei, è la voce delle persone normali”. Tra I partecipanti delle proteste del 2008, Dalma è tra le persone che ha scelto la non violenza per farsi sentire, ma quello che è rimasto più impresso all’autrice è stato proprio il suo rapporto con i cinesi. “Provava empatia e non risentimento verso di loro perché privi di fede, una cosa a cui i cinesi di oggi, in una società votata all’ateo capitalismo guardano con crescente curiosità”, spiega Demick. Il Tibet che resiste, dentro e fuori dalle pagine di un libro.
Di Lucrezia Goldin
[Pubblicato su GariwoMag]Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.