Pechino domina il mercato globale dell’acciaio, ma la quota di export negli Stati uniti è molto ridotta. Preoccupati Corea del sud e Vietnam
Donald Trump annuncia tariffe del 25% sull’acciaio. Il senso di déja vu è forte, ma da quella prima volta del 1° marzo 2018 molto è cambiato. Anche in Cina, dove apparentemente si osserva senza troppe preoccupazioni la nuova avvisaglia di guerra commerciale globale. “La Cina ha esportato 890 mila tonnellate di acciaio negli Stati uniti nel 2024, vale a dire solo lo 0,8% delle esportazioni totali. Pertanto, ulteriori dazi avrebbero un impatto limitato”, si leggeva ieri sul tabloid nazionalista Global Times. “Il protezionismo di Trump danneggerà soprattutto gli Stati uniti”, ripetono da mesi i media statali. Eppure, Pechino potrebbe restare in qualche modo esposta ai rimbalzi della nuova fatwa trumpiana.
La quota della Cina nelle esportazioni globali di acciaio è passata dal 14% nel 2022 al 23% nel 2024, superando il record di spedizioni del 2016. Ampliando ulteriormente lo sguardo, l’economia cinese resta dipendente dall’export, più di quanto non vorrebbe il Partito comunista. Un tempo, la domanda interna di acciaio era insaziabile, trainata dalla storica esplosione del mercato immobiliare. Un trend interrotto bruscamente già prima del Covid-19, ma a cui la pandemia e la conseguente caduta di consumi e fiducia ha dato un colpo letale, con un eccesso di appartamenti vuoti e case mai consegnate agli acquirenti. L’offerta di nuove abitazioni è precipitata e gli investimenti infrastrutturali statali non sono in grado di colmare il vuoto. La produzione di acciaio non è però diminuita, trovando sbocco verso il mercato internazionale con prezzi spesso al ribasso. Secondo diversi studi, le esportazioni cinesi di acciaio caleranno dai 109 milioni di tonnellate del 2024 a 96 milioni di tonnellate nel 2025.
La Cina è però convinta di avere alcune armi dalla sua parte. Intanto, già da anni ha dirottato l’export di acciaio verso paesi non occidentali. Le esportazioni verso Vietnam, Emirati arabi, Arabia saudita e Brasile sono più che raddoppiate tra il 2022 e il 2024, così come sono in crescita quelle verso altri paesi di Sud-Est asiatico, Asia meridionale e America latina. Secondo Fastmarkets, se i produttori cinesi dovessero interrompere le spedizioni di parti intermedie verso gli Stati uniti, optando per i mercati delle economie emergenti, la produzione statunitense potrebbe finire paralizzata fino a quando non verranno reperite alternative a costi più elevati.
I dazi sull’acciaio rischiano intanto di colpire direttamente altri due paesi asiatici: Corea del sud e Vietnam, cioè uno dei principali alleati americani nella regione e l’ex rivale corteggiato da Joe Biden prima e dal Pentagono poi. Entrambi sono tra i primi cinque esportatori negli Usa. Per Seul è in ballo quasi il 10% del suo export, per Hanoi il principale partner del settore. Durante il primo mandato di Trump, la Corea del sud aveva negoziato l’esenzione in cambio dell’accettazione di un sistema di quote che limitava i volumi delle esportazioni. Potrebbe accadere di nuovo, ma intanto c’è preoccupazione.
Intanto, ieri sono entrate in vigore le contromisure ai dazi al 10% su tutte le importazioni dalla Cina imposti dalla Casa bianca. Si tratta di ritorsioni misurate che colpiscono beni americani per un valore di 14 miliardi di dollari, nettamente meno dei 525 miliardi colpiti da Trump. Il minimo indispensabile per la Cina, che aveva bisogno di non mostrarsi debole sia all’opinione pubblica interna sia agli Stati uniti, con cui sembra voler provare a negoziare. Qualora andasse male, ha già mostrato di essere disposta a toccare una leva strategica come le risorse minerarie e le terre rare.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.