Mentre la Cina celebrava con il consueto sfarzo la sua festa nazionale per i sessantuno anni della Repubblica Popolare, a Hong Kong un manipolo di attivisti manifestava di fronte ad una stazione di polizia contro l’arresto di alcune persone, che lo scorso giugno avevano celebrato i ventuno anni dal massacro di Tiananmen. A guidarli c’era Leung Kwok-hung, un personaggio celebre a Hong Kong, autoproclamatosi Lunghi Capelli («non me li taglierò finché non ci sarà vera democrazia da queste parti»), da sempre impegnato in un continuo confronto con il gigante asiatico.
Non c’era tanta gente al presidio, ma un discreto schieramento di forze dell’ordine, vagamente preoccupati dalla presenza di uno straniero. Leung si è avvicinato a loro e dopo un rapido conciliabolo, tutto è tornato alla normalità. Tornando indietro sui suoi passi ha offerto sigarette ai manifestanti, con il sorriso tra le labbra e l’aria di chi sembra sempre avere tutto sotto controllo.
La Cina lo deve sopportare perfino in visite ufficiali, perché Lunghi Capelli, anima della politica locale, è da tempo passato dal movimento alle tribune del Consiglio legislativo di Hong Kong: «a parte le occasioni date dalle visite ufficiali, io non posso mettere piede in Cina, sono interdetto».
Eletto nel 2004 con circa 61 mila voti, è divenuto celebre tempo fa in Occidente per le sue numerose battaglie democratiche, accompagnato dalla immancabile maglietta di Che Guevara («ne ho più di quaranta», precisa): è lui una delle anime più importanti del ricordo del giugno 1989 a Hong Kong. Qualche tempo fa di Lunghi Capelli ha fatto un ritratto politico e umano struggente Yu Jie, scrittore cinese di cui ci occuperemo, recentemente messo ai domiciliari a seguito del Nobel a Liu Xiaobo, per avere pubblicato proprio a Hong Kong un libro contro il premier cinese Wen Jiabao.
Incontriamo Lunghi Capelli nella calda mattina di Hong Kong, dopo un numero esagerato di telefonate per trovarci nel posto giusto. Lunghi Capelli è ipercinetico e presume che la conoscenza di uno straniero di Hong Kong sia la stessa che ha un locale. Finalmente concordiamo un punto comune, accanto a un Internet Point (con bibita gratis, schermo gigante, pulitissimo a circa 10 centesimi di euro all’ora): con un minivan con foto del Che e la scritta Power to People, mi carica rapido, neanche avessimo gli scagnozzi di qualche Hong Kong movie alle spalle e ci dirigiamo all’università, dove Lunghi Capelli è invitato a tenere un seminario alla facoltà di giurisprudenza. Oggetto: l’economia cinese e quella di Hong Kong, un modello che Leung chiama la casino economy: «si basa su speculazioni e scommesse finanziarie, ma la differenza tra chi possiede molto e chi niente, non farà che creare gravi conseguenze alla Cina», poi andiamo nel suo ufficio nei palazzi governativi di Hong Kong, dove entra tra i saluti e gli abbracci di ogni addetto all’interno del mega insediamento di Ice House Road, cuore della city di Hong Kong.
Leung si definisce socialista, trotzkista per la precisione, e costituisce una novità politica nella palude di Hong Kong, rappresentando una sorta di anti politica, concepita come movimento delle persone, contro il potere dei partiti. Da quando è stato eletto versa 4mila euro circa del suo compenso nelle casse di diverse organizzazioni della società civile di Hong Kong, dopo esserne stato per molto tempo un loro rappresentante, sempre presente e molto acclamato dai media: «la politica è fatta dalla gente e io sono ottimista circa il futuro, d’altronde anche prima del crollo dell’Unione Sovietica nessuno credeva a quella possibilità. La Cina in questo momento appare molto forte, ma le disuguaglianze e la mancanza dei diritti prima o poi creeranno dei problemi alle autorità. Non servono leader, io sono semplicemente uno che aiuta la gente a dire basta, perché alla fine a muoversi sono le persone, quando capiscono che si è arrivati ad un livello limite di sopportazione. Per questo sono ottimista».
Chiacchierare con Leung – completamente ispirato dal Novecento – è un continuo rimando al passato, anche europeo, con un occhio di riguardo alla storia cinese, «Mao era uno che quando aveva freddo si metteva il cappotto del comunismo, ma in realtà il suo modello resta quello confuciano», precisa, spiegando poi il suo personale approccio alla politica cinese: «ci sono stati i recenti scioperi in Cina che dimostrano una situazione che potrebbe diventare più calda, ci vuole del tempo, ci sono voluti secoli, anche in Europa, per portare a dei cambiamenti, ci vuole del tempo anche in Cina, nonostante la potenza che sfoggia Pechino. Io credo che la gente, quando il regime autoritario non sarà in grado di farli mangiare quotidianamente, si ribellerà».
Infine ancora sul minibus, di fretta, verso la stazione di polizia di Quarry Bay, dove finiscono tutti gli attivisti che hanno problemi con la giustizia della città: «in teoria la polizia di Hong Kong non ha grossi problemi con noi, ma le pressioni cinesi ormai si fanno sentire». Dopo la dimostrazione finiamo in un piccolo ristorante di quella zona, prima popolare e abitata da operai, ora finita sotto la costruzione di una nuova sfavillante parte della città finanziaria.
Mentre mangiamo noodles e tofu, gli chiedo come è possibile ritrovarsi a combattere un governo nominalmente socialista, con la maglia di Che Guevara: «è molto semplice in realtà, specie se ritieni che la Cina non sia comunista. Il Che non sarebbe sopravvisuto in Cina», specifica ridendo.
Gli chiedo cosa pensa delle ultime ondate di scioperi in Cina: «questi eventi potrebbero avere similitudini con l’Europa Orientale prima del crollo sovietico, il problema della Cina è che gli intellettuali, gli artisti, gli attivisti non hanno coordinamento, non sono organizzati. E quindi questi scioperi non trovano spazio poi in battaglie più generali. Infine molte persone attive negli anni 80 hanno finito per piegarsi alle esigenze del nuovo sistema cinese».
Che sentimento, che aria si respira ad Hong Kong rispetto alla Cina?
«Frustrazione, in primo luogo Combattiamo contro un gigante, con ben poche possibilità di vincere, ma almeno noi dobbiamo resistere. E ‘difficile. La forza economica della Cina ha scelto Hong Kong come centro finanziario. Quindi tutte le persone che hanno legami con il Partito a Hong Kong ormai fanno valanghe di soldi. Questo crea molta confusione, perché la gente vede questi fenomeni e pensa che la Cina gioverà a Hong Kong. In ogni caso io sono ottimista, è vero che la noi per molto tempo non abbiamo avuto uno straccio di società civile, ma piano piano qualcosa sta nascendo. In Europa c’è voluto molto tempo prima di affermare alcuni diritti, anche in Cina, più conservatrice e tradizionalista, saranno necessari molti anni. Ma i cambiamenti arriveranno, ne sono certo».
E Hong Kong in tutto questo?
«Qui dopo il passaggio cinese al capitalismo ormai la gente non ha più un senso politico. Il socialismo viene visto come il demonio, c’è una grande confusione. Il problema vero è che sono trent’anni che manca completamente una discussione critica e politica».
Mentre usciamo dal ristorante, di fronte ai mega grattacieli di questa ex area operaia, Leung mi indica con il dito il centro di Hong Kong, da cui siamo partiti in mattinata: «Hong Kong non esiste, spiega, è un miraggio: la maggioranza delle persone può solo guardare le vetrine splendenti, senza comprare nulla. Per questo prima o poi le cose cambieranno».
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