Si chiamano wenyi qingnian (abbreviato in wenqing), amano l’arte, la letteratura esistenzialista, il cinema indipendente. Vogliono una vita benestante, ma anche appagante spiritualmente. Sono gli hipster cinesi, o meglio ciò che a loro più si avvicina oltre la Muraglia. Ma con le immancabili caratteristiche locali che rendono ogni prodotto elaborato dalla magmatica società cinese originale anche quando di derivazione occidentale.
Il termine ha quattro cinque anni di vita ed è di difficile definizione; addirittura differisce a seconda delle aree del Paese prese in esame. Lo stesso Baidu Baike (sorta di Wikipedia «in salsa di soia») lo analizza associandolo alle parole della scrittrice e musicista Guo Xiaohan: «Sono la tipica wenyi qingwen. Amo la poesia, i romanzi, la musica indie, il cinema europeo, la fotografia, scrivere per il mio blog, i gatti, fare giardinaggio, cucire, preparare dolci e creare borse ecologiche». Molti degli hobby di Guo sono passioni condivise trasversalmente dalla variegata categoria dei wenqing, spiriti liberi animati da un romanticismo nostalgico che punta a esorcizzare il consumismo in cui si crogiola la Cina «dell’arricchirsi è glorioso».
Oltre al disinteresse per l’attivismo politico, la provenienza sociale è una delle caratteristiche che meglio distingue i wenqing dagli hipster occidentali. Come scrive Rob Schmitz in Street of eternal happiness, i wenqing appartengono alla generazione dei figli unici post anni ’80, la prima ad essere cresciuta nella Cina del benessere economico post-Mao. La prima ad aver sperimentato l’agguerrita competizione sociale scaturita dalla necessità di accaparrarsi una fetta di quel benessere per poter coltivare i propri interessi. Niente a che vedere con gli hipster generati dal ventre della middle class urbana americana; «un movimento aristocratico di disprezzo della passività mainstream» – in opposizione a certi aspetti della modernità, come l’omologazione, e in accettazione di altri, come la sessualità libera, l’arte popolare, l’uso di droghe e alcolici – mollemente sconfinato nella vasta famiglia dei radical chic.
I wenqing appartengono ad una piccola borghesia apertamente critica verso i griffatissimi nuovi ricchi (tuhao) plasmati dalle riforme economiche di Deng Xiaoping. Per molti di loro il rifiuto delle convenzioni si traduce nella decisione di lasciare un impiego ben retribuito (ma poco soddisfacente) nelle grandi città per per cercare una vita più tranquilla in provincia, dove l’aria è meno inquinata, il cibo più sicuro e dove riescono a trovare consimili disposti a condividere i loro interessi culturali.
E’ questo il caso di una coppia di Pechino che, a bordo della sua Polo arancione, nel 2013 ha lasciato la capitale per stabilirsi a Dali, nella provincia sud-occidentale dello Yunnan, un polmone verde lontano dalle colate di cemento della Cina costiera. «Non siamo in cerca di opportunità di business», scrivevano sul loro blog, «vogliamo semplicemente vivere in una piccola città, vicino a montagne e corsi d’acqua, per condurre una vita pacifica, respirare aria fresca, bere una tazza di tè preparata con neve sciolta e mangiare alimenti naturali. Molti a casa ci ammirano e invidiano. Ma tutto quello che possiamo dirvi è che anche voi potete fare lo stesso».
Il post si chiudeva con un saluto pregno di significato:
«Addio Pechino.
Addio Pm 2,5 [polveri sottili].
Addio vita frenetica di città.
Addio».
Due anni più tardi la loro storia è diventata un libro: «Lasciare Pechino per Dali: quello che vuoi con chi vuoi». Ma nel settembre 2014 un ultimo messaggio ha messo un punto all’esperienza bucolica dei due. La coppia ha di lì a poco rifatto fagotto per tornare a Pechino. E la motivazione non ha proprio nulla di romantico. «Un’improvvisa opportunità di lavoro» ha indotto la famiglia ad abbandonare lo Yunnan. Come spiega Schmitz, infatti, dopo aver messo in piedi le loro attività bohémien (librerie, caffetterie letterarie, gallerie d’arte adibite alla degustazione di vini) per attrarre turisti «via dalla pazza folla», molti wenqing si trovano non soltanto a rimpiangere i servizi delle megalopoli d’origine, ma anche i loro vecchi salari. L’iniziale entusiasmo per lo scambio reciproco e la condivisione delle loro aspirazioni culturali non di rado sfocia in un’agguerrita competizione tra colleghi per spolpare gli avventori di passaggio.
Niente di strano quindi se il fenomeno dei giovani intellettualoidi sta generando reazioni di ammirazione da parte di alcuni, di derisione da parte di altri. Secondo i più critici il passo che separa i wenqing dai «2B qingnian» (letteralmente «gioventù di scemi») è breve.
Ciò che ancora salva i wenqing – spiegava tempo fa l’Atlantic – è la loro dedizione all’imposizione di una controcultura anti-mainstream, che deriva sostanzialmente dalla mancata esperienza della disillusione maturata nella società americana in seguito alla degenerazione modaiola delle sottoculture hippie e punk; l’anti-fashion svuotato della carica anticonformista e riconvertito nel fashion. Al contrario, nonostante tutto, in genere i wenqing sembrano conservare ancora la convinzione di poter battere la società dei consumi sguainando versi di Rilke, ascoltando musica classica e immergendosi anima e corpo in tutte quelle attività mirate ad elevare lo spirito.
Un’utopia da cui si sono invece allontanati i «2B qingnian», un’altra nicchia di recente formazione che riunisce giovani «alienati» ormai a corto di speranze. Come nel caso dei diaosi (i «perdenti» di umili origini, con un salario misero, senza una casa di proprietà, in continua ricerca di una donna e sempre inchiodati davanti al pc), la condizione di «2B qingnian» si traduce nell’accettazione passiva davanti all’incapacità di cambiare lo stato delle cose. Sono entrambe etichette accettate con velate sfumature autoironiche e di autocommiserazione da quanti si considerano incapaci di reagire alle pressioni sperimentate in famiglia (dove matrimonio e procreazione vengono avvertiti come un obbligo sociale) e nel mondo del lavoro (dove le opportunità d’impiego sprofondano lentamente assieme alla crescita del Pil). Ebbene, c’è chi a tutto questo preferisce rispondere riaffermando quasi orgogliosamente il proprio status di outsider.
[Foto credit: cnn.com]