Guerra Dollaro-Yuan. Analisi dell’ultima battaglia

In by Simone

La guerra valutaria tra il dollaro statunitense e lo yuan cinese si è inasprita dopo il passaggio al Senato americano del disegno di legge tariffaria e minaccia di trasformarsi in una guerra commerciale molto pericolosa per le sorti dell’economia mondiale. Quali sono le vere finalità di questa nuova offensiva americana? Riusciranno le minacce a piegare l’avversario cinese?La guerra valutaria tra Stati Uniti e Repubblica Popolare di Cina entra in una nuova fase di tensione in seguito all’approvazione da parte del Senato americano di una proposta di legge sulle countervailing duties (misure di ribilanciamento) da applicare alle importazioni ‘drogate’. La norma prevede imposizioni fiscali aggiuntive per le merci provenienti da Paesi che tengono il valore della propria valuta artificialmente troppo basso. Chiaro bersaglio della misura è la Cina, accusata da anni di svalutare lo yuan al fine di garantire un vantaggio competitivo alle proprie esportazioni a basso costo. Il testo Repubblicano, approvato dal Senato con largo consenso bipartisan, sembra incontrare resistenze nello stesso Partito Repubblicano alla Camera e nel Presidente Obama, che considerano la manovra “molto pericolosa”. E’ infatti diffuso il timore che essa possa scatenare una guerra commerciale, i cui effetti sarebbero disastrosi.

Se le motivazioni politiche per sostenere il disegno di legge protezionistico sono chiare, tantopiù con le elezioni alle porte, stupisce invece il sostegno che arriva da un economista del calibro di Paul Krugman: premio Nobel, iperkeynesiano, già da qualche anno utilizza le pagine del New York Times per dispensare consigli e lezioni al mondo politico e accademico, oltre che, incidentalmente, ai suoi lettori. Secondo Krugman: “Il terribile stato dell’economia mondiale riflette le azioni distruttive intraprese da molti attori. Ma il fatto che le colpe siano condivise non significa che non si debbano ritenere i singoli Paesi responsabili delle propria cattiva condotta. Questo è precisamente quello che i leader del Senato faranno questa settimana.”

Tralasciando qui di ricordare chi abbia la piena e quasi esclusiva responsabilità di aver causato la crisi economica (Governo e Banca Centrale Americana in testa), cosa verrebbe imputato alla Cina dall’influente economista? Egli sostiene che il grande deficit commerciale che gli Stati Uniti hanno nei confronti della Repubblica Popolare, cifra record di 28.8 miliardi di dollari secondo le ultime stime pubblicate dal Dipartimento del Commercio Americano, impedirebbe al mercato del lavoro degli Stati Uniti di tornare ai livelli occupazionali pre-crisi. Applicare misure anti-dumping per rendere i prodotti cinesi più costosi dovrebbe quindi poter dare nuova salute all’economia americana e incentivare così la creazione di posti di lavoro?

Molti economisti ne dubitano, contestando che un apprezzamento dello yuan non avrebbe effetti certi sull’occupazione americana, in primo luogo perché Stati Uniti e Repubblica popolare non competono sulle stesse produzioni e in secondo luogo perché il divario di produttività dei lavoratori nei due Paesi è ancora troppo ampio per poter essere ridotto significativamente dalla variazione del tasso di cambio tra le monete. A conferma di questa ipotesi si noti come il deficit commerciale degli Stati Uniti sia sempre cresciuto, dal 2005 a oggi, nonostante l’apprezzamento costante e significativo della moneta cinese: +30% in termini nominali e ancor di più in termini reali, considerata cioè l’alta inflazione cinese. Quel che è certo, invece, è che uno yuan più forte comporterebbe un calo del potere d’acquisto dei cittadini statunitensi dal momento che le merci importate diventerebbero più care, dunque l’eventuale diminuzione del deficit commerciale, utile allo Stato, verrebbe pagata indirettamente dai suoi stessi cittadini.

In sintesi, secondo il parere di un altro premio Nobel, Robert Mundell, la legge “creerebbe un grosso danno all’economia mondiale e alla stabilità dell’Asia”, perché darebbe il via a una guerra commerciale. L’agenzia di stampa cinese Xinhua ha pubblicato prima del voto un interessante articolo nel quale citava lo ‘Smooth-Alley Tariff Act’, legge Americana del 1930 che imponeva cospicue tasse sulle importazioni. La promulgazione della norma, scongiurata dagli economisti in patria e osteggiata dallo stesso presidente Hoover, portò i Paesi che commerciavano con gli Stati Uniti a varare delle manovre analoghe e speculari, con il conseguente crollo degli scambi internazionali. L’agenzia di stampa cinese – vicina al Partito – sottolinea le somiglianze di quel periodo storico con l’attualità e ricorda come la norma protezionistica avesse aggravato la crisi in corso e mandato alle stelle il tasso di disoccupazione americano, passato dall’ 8% del 1930 al 25% del 1932.

Anche il Governo cinese, solitamente cauto nelle dichiarazioni ufficiali, ha condannato esplicitamente la proposta di legge tramite un comunicato congiunto diramato da Banca Popolare Cinese (la Banca Centrale), Ministero del Commercio e Ministero degli Affari Esteri. Nella nota si denuncia, non senza ironia, come l’imposizione di tariffe violerebbe le normative internazionali vigenti, quelle stesse normative che gli Stati Uniti accusano la Cina di ignorare. E’ in effetti probabile che quand’anche la legge dovesse passare il vaglio della Camera e del Presidente Obama, sarebbe l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a contrastarla proprio per scongiurare l’escalation di una guerra commerciale.

Perché allora un economista di prim’ordine come Krugman, che certamente ha ben chiare le circostanze, si presta a dare credibilità e sostegno a una proposta di legge quantomeno controversa? La risposta va forse ricercata nell’intenzione di prestare soccorso all’amministrazione Obama in difficoltà, additando un nemico esterno per le debolezze degli Stati Uniti e tentando di forzare la mano alla Banca popolare cinese perché rafforzi lo yuan più velocemente. Sia nel 2005 che lo scorso anno, infatti, la minaccia concreta di applicare tariffe alle importazioni era bastata a spingere il governo cinese ad apprezzare la propria valuta. 

Ma negli ultimi anni la Cina ha guadagnato un ruolo di grande rilievo sullo scacchiere internazionale e sembra sempre meno intenzionata a mostrarsi supina di fronte alle richieste scomposte degli Stati Uniti. Forse non è un caso se in questa occasione la Banca centrale cinese, saputo dell’esito della votazione al Senato, ha reagito svalutando lo yuan per la prima volta da oltre un anno e proseguendo con un ulteriore deprezzamento il giorno successivo. Su weibo, il twitter cinese, si sono inseguite le voci riguardanti un messaggio segreto che sarebbe racchiuso nel nuovo tasso di cambio fissato dal Governo della Repubblica Popolare. Pronunciando infatti le cifre 6.3737 (liudian sanqi sanqi) si ottiene un suono che, se dotati della giusta ironia, è possibile ricondurre all’eloquente espressione 有点生气生气, youdian shengqi shengqi, ovvero ‘un po’ arrabbiati’. Non ci resta che attendere le prossime offensive da cui capiremo le sorti di questa guerra di posizione.

* Matteo Pacini è laureato in economia politica e in lingua e cultura cinese. Dotato di versatilità e un forte spirito di sopravvivenza, ogniqualvolta gli si chieda conto di una lacuna in una delle due discipline cerca di tirare in ballo l’altra per salvarsi. Attualmente lavora in Cina e si interessa con particolare attenzione alle questioni politiche ed economiche del Paese.