Greenpeace le definisce i «giganti silenziosi». Sono le diciotto grandi aziende che in Cina contravvengono sistematicamente ai regolamenti antinquinamento voluti da Pechino. Nei giorni in cui l’attenzione dell’opinione pubblica cinese è puntata sul “ricollocamento” di circa 15 mila persone che vivono nelle terre vicino alla città di Jiyuan, nella provincia dell’Henan, in fuga dall’inquinamento prodotto dagli impianti della Yuguang Gold and Lead, la più grande fonderia di piombo del paese; un’inchiesta di Greenpeace svela il comportamento antiambientalista delle principali aziende che operano nel paese.
Sotto l’occhio vigile dell’associazione ecologista sono finiti marchi noti nel mercato globale – le multinazionali Shell, Samsung Electronics, Nestle, LG, Kraft, Motorola, Denso e Bridgestone – e dieci tra le maggiori aziende cinesi, come la PetroChina, la casa automobilistica Dongfeng e il gruppo Shenhua attivo nel settore minerario ed energetico. Tutte, riferisce Greenpeace, avrebbero ignorato la legge cinese che obbliga le aziende a comunicare quanto i propri stabilimenti inquinino, rilasciando sostanze tossiche nelle acque e nell’aria. La norma in questione, conosciuta con il nome Misure per la rivelazione delle informazioni ambientali, è in vigore dal maggio 2008 e prevede che l’azienda colta in fallo per aver superato i limiti d’inquinamento imposti dai governi locali debba rendere pubblici i dai sulle proprie emissioni entro i trenta giorni successivi. Lo stesso sistema negli Stati uniti ha permesso la riduzione dell’inquinamento del 61% negli ultimi vent’anni. Nel suo primo anno di vita la legge sulla trasparenza è però stata disattesa numerose volte con grande disappunto degli ambientalisti.
«È incredibile che marchi, leader mondiali nei propri settori, ignorino i più basilari regolamenti ambientali della Cina – commenta Ma Tianjie, responsabile di Greenpeace China, intervistato dal quotidiano in lingua inglese China Daily – la gente ha il diritto di sapere cosa riversano nei fiumi e nei laghi» I diretti interessati rigettano le accuse, ma non sono i soli a salire sul banco degli imputati. Il ministero dell’Ambiente punta il dito contro i governi locali, vera spina nel fianco per l’applicazione delle direttive provenienti da Pechino e troppo spesso compiacenti con le richieste delle aziende. Un problema soprattutto culturale secondo Ma Jun, fondatore dell’Istituto per gli affari ambientali e pubblici. «Non è nella tradizione cinese rendere pubbliche le informazioni in possesso del governo – spiega Ma – se, però, i governi locali inizieranno a condividere i dati la situazione potrà migliorare». Comportamento di multinazionali e autorità a parte, a causare problemi è anche una certa ambiguità della legge che, sotto la dicitura «aziende che inquinano gravemente», non è chiara su quali siano esattamente le informazioni che debbano essere rese pubbliche.
Un’ambiguità che rende più facile disattendere la legge e più difficile difendere le acque e i terreni della Cina.
[pubblicato su Terra, il 22 ottobre 2009]