Gli otaku e noi: animali accumuladati

In Asia Orientale, Cultura by Vittoria Mazzieri

Come si manifesta la postmodernità? E perché il prototipo dell’uomo postmoderno potrebbe essere l’otaku, appassionato di manga, anime e videogiochi, in genere di sesso maschile, il cui interesse si sviluppa in chiave collezionistica o compulsiva per qualsiasi prodotto della cultura pop? Il filosofo Hiroki Azuma, in un saggio cult uscito nel 2001 e riproposto da Nero nel 2024, risponde a queste domande delineando un’umanità post-storica e animalesca, che accumula e fagocita un’infinita quantità di dati

Giappone, 1979. La serie anime Mobile Suit Gundam, ideata da Yoshiyuki Tomino, fa il suo esordio nel 1979 e diventa la prima del sottogenere dei cosiddetti real robot. I super robot che combattono in anime e manga, i mecha, non sono più invincibili macchinari coinvolti in una lotta tra il bene e il male: hanno ora elementi realistici dal punto di vista del funzionamento meccanico e agiscono in una trama ben più complessa, che approfondisce le storie dei singoli personaggi e li pone davanti a quesiti esistenzialisti, del tipo: “perché il genere umano continua a farsi la guerra?”.

La serie Gundam viene ben accolta dagli appassionati, che mostrano un forte interesse ai dettagli del suo universo narrativo. In quegli anni, scrive il filosofo giapponese Hiroki Azuma, “persisteva nei consumatori un certo attaccamento a una grande narrazione immaginaria”. Ma in seguito, con le trasformazioni sociali che caratterizzano l’epoca postmoderna, si delinea un differente approccio da parte di fruitori di anime e manga: la trama perde centralità a favore di un’attenzione ossessiva verso i dettagli di ambientazioni e personaggi. Un processo che può essere preso a modello per comprendere i mutamenti in atto nella seconda metà del Novecento e che viene descritto con uno stile chiaro e coinvolgente da Azuma, filosofo, autore e critico letterario.

Edito da Nero (2024), il libro Otaku. La cultura che ci ha trasformato in animali accumuladati è la traduzione del suo saggio pubblicato nel 2001 dal colosso giapponese dell’editoria, Kodansha. Un lavoro che lo renderà noto come il filosofo degli otaku, termine che dagli anni Sessanta viene utilizzato da appassionati di manga, anime e videogiochi, in genere di sesso maschile, per descrivere sé stessi e, soprattutto. la loro propensione a collezionare qualsiasi prodotto della cultura pop e ad apprendere a memoria le più disparate categorie di dati.

L’intento del testo, come si legge, è quello di colmare un vuoto emerso alla fine degli anni Novanta, periodo in cui la cultura otaku viene raccontata dai media con toni sospetti se non quando allarmistici, descrivendola come indissolubilmente legata a comportamenti asociali e violenti. Inoltre, in questi anni il mercato dei testi di critica in Giappone è crollato. Come afferma lo stesso Azuma durante un’intervista nel 2009, “non c’era nessuna critica che affrontasse le sottoculture, quindi ho pensato che fosse giunto il momento di un’analisi del genere”.

Un saggio cult, oltre l’accademia

È il momento adatto. Il libro diventa un caso editoriale capace di valicare i circoli accademici, forte anche della capacità di distribuzione di Kodansha. Il pubblico a cui si rivolge Azuma è composto da appassionati di cultura, fumetti e mode giapponesi, in generale di “persone creative” ma anche “studenti delle scuole superiori”. Il fulcro del saggio non è mettere a punto un’analisi della cultura otaku, né una riflessione dal punto di vista teorico. È casomai l’inverso. Azuma intende fare uso della sottocultura come paradigma teorico per analizzare il postmoderno, non solo in Giappone. L’otaku, nella sua compulsione a collezionare e fagocitare dati e informazioni, diventa secondo l’autore il prototipo dell’uomo postmoderno, che “visualizza il mondo come un immenso archivio di dati, secondo un impianto a-gerarchico e bidimensionale”.

Tornando a Gundam, l’anime di fantascienza citato in apertura: il periodo successivo al rilascio della serie rimarca una sostanziale differenza nelle modalità di consumo. Evangelion, anime prodotto nel 1995, è spesso paragonato a Gundam in quanto entrambi sono ambientati in un futuro prossimo e contano la presenza di un protagonista giovane coinvolto suo malgrado in una guerra. Ma, nota Azuma, se l’attaccamento alla storia narrata da parte degli appassionati di Gundam spinge il regista Yoshiyuki Tomino a riproporre la trama coerente nelle serie successive, i progetti a cui si dedica la società produttrice di Evangelion sono ben altri: messa in vendita di giochi da tavoli ispirati all’anime nelle fiere di settore, carte telefoniche con disegni erotici che raffigurano la protagonista e videogiochi che ripropongono o sviluppano ulteriormente la trama.

Come la postmodernità si manifesta nella cultura otaku

Il culto degli appassionati verso figurine, action figure (i modellini snodabili dei personaggi), riviste e ogni prodotto di merchandise che riproduce manga, anime e videogiochi è una delle due caratteristiche identificate da Azuma con cui la postmodernità si manifesta nella cultura otaku. Dagli anni Ottanta le case di produzione mettono a punto specifiche strategie per registrare, archiviare e replicare le caratteristiche che possono rendere un personaggio moe, parola giapponese che indica qualcosa che è carino, attraente, tenero. In altre parole, cute.

Nel decennio successivo Internet avrà un ruolo centrale nella scomposizione e nella catalogazione di questo genere di dettagli. I fan diventano progressivamente meno attratti dalla struttura narrativa e sempre più legati al mercato dei “simulacri”, termine preso in prestito dal filosofo francese Jean Baudrillard: nella società postmoderna, secondo il filosofo, la distinzione tra originale e copia di un’opera si attenua fino a fare prevalere una terza forma, che non è né l’una né l’altra. Quella, appunto, del simulacro.

A questa prima caratteristica si associa quella che riguarda il declino delle grandi narrazioni, processo descritto da un altro filoso francese, Jean-François Lyotard. Nell’epoca postmoderna, dalla metà del XX secolo, l’individuo è alla ricerca di nuove entità a cui fare riferimento. Gli otaku rispondono preferendo un mondo immaginario alla realtà sociale, senza però rifiutarla. Azuma si oppone a chi si limita a considerarli un gruppo di asociali: semplicemente, tendono a preferire che siano quei temi a definire le loro relazioni interpersonali.

Tradizione o americanizzazione?

Per l’autore gli otaku non sono outsider esclusi dal tessuto sociale né persone che agiscono in contrapposizione al sistema. Sono invece l’esito della postmodernità che valica i confini del paese. La loro, scrive nel libro, è “una storia di adattamento, di come ‘addomesticare’ la cultura americana”. Se l’immaginario di anime e manga simula il Giappone del periodo Edo dal 1603 al 1868, si tratta semmai della raffigurazione di uno “pseudo-Giappone” riassemblato con materiali americani.

Le stesse tecnologie di animazione provengono dagli Stati Uniti. Ma negli anni Ottanta, nel pieno della big baburu, un breve e illusorio periodo di periodo di prosperità che culminerà poi con lo scoppio della bolla dei primi anni Novanta, il paese riesce almeno nell’apparenza “a dimenticare il suo sentimento d’inferiorità in rapporto agli Stati Uniti”. La società giapponese sembra vedere realizzare le previsioni di Alexandre Kojève, filosofo russo naturalizzato francese: a una condizione “animale” raggiunta dagli Stati Uniti del secondo dopoguerra e del pieno sviluppo delle forze produttive, si contrappone il Giappone. 

Come spiega McKenzie Wark, studiosa di teoria dei media, teoria critica e studi culturali (Nero ha pubblicato i suoi Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire e, nel 2024, Raving), in un saggio del 2015 su Public Seminar: “Lì la classe dirigente aveva deposto le armi e si era dedicata a coltivare una cultura puramente cerimoniale e rituale, che manteneva vivo il desiderio nella forma ma non nella sostanza. Kojève pensava che il Giappone del dopoguerra avesse superato il suo interludio militarista tornando a questa pratica “snob“. Lo snob mantiene vivo il desiderio, e con esso la possibilità di essere umani, attraverso la negazione del mondo”.

Azuma distorce questa storia: è convinto che nel secondo dopoguerra la cultura giapponese diventa completamente “americanizzata”, in quanto caratterizzata dal consumismo e dalla gratificazione immediata dei bisogni. L’esito ultimo di questo processo sarà appunto l’uomo postmoderno, animalizzato e fagocitatore di una quantità infinita di dati. I mutamenti osservatori dall’autore di questo libro, secondo Wark, avrebbero meritato a tutti gli effetti una parte più importante del dibattito globale: “Se avessimo prestato attenzione al Giappone negli anni Ottanta, forse non saremmo rimasti così sorpresi dalle cose che sono successe in Occidente vent’anni dopo”.

La cultura otaku, in quanto prototipo della postmodernità, è un fenomeno tutt’altro che limitato al paese asiatico e contingentato a quel periodo storico. A oltre vent’anni dalla pubblicazione del saggio di Azuma, non si può fare a meno di pensare che le sue intuizioni siano ancora valide. Da una parte, con la rapida ascesa di fenomeni culturali legati al mondo anime e manga, come il cosplay. Ma ancor di più a fronte delle tendenze all’ “accumulo digitale”, termine con cui si riferisce alla necessità di accumulare e conservare contenuti digitali, e dell’accozzaglia di contenuti ridondanti e spesso pericolosi a cui siamo sottoposto nelle piattaforme di intrattenimento.