cina

Giornalismo e narrazioni sulla Cina oggi in Italia

In Cina, Cultura by Redazione

Giornalismo e narrazioni sulla Cina oggi in Italia: una conversazione con Alessandra Colarizi, Lorenzo Lamperti e Simone Pieranni. Dal saggio Leggere la Cina, capire il mondo. Narrazioni dominanti e discorso critico in un’era di competizione (Mimesis, 2025)

Simone Pieranni, con una formazione nelle scienze politiche, ha vissuto per un decennio in Cina, durante il quale ha avviato, nel 2008, il progetto China Files. In seguito ha lavorato come caporedattore agli esteri per il manifesto, e attualmente si dedica principalmente alla creazione di podcast sull’Asia Orientale per Chora Media. In questi anni ha pubblicato numerosi libri sulla Cina, l’ultimo dei quali è Tecnocina. Storia della tecnologia cinese dal 1949 a oggi (Add Editore, Roma, 2023). Alessandra Colarizi, laureata in studi cinesi, ha collaborato e collabora tuttora con varie testate nazionali, tra le quali il manifesto, il Fatto Quotidiano, Il Messaggero e Domani. Dal 2017 è direttrice editoriale di China Files, di cui cura la programmazione quotidiana. La sua pubblicazione più recente è Africa Rossa. Il modello cinese e la Cina del futuro (Asino d’Oro, Roma, 2022). Lorenzo Lamperti è giornalista professionista dal 2012 e ha gestito per alcuni anni la sezione esteri del quotidiano online Affaritaliani. Interessato alla realtà cinese, nel 2019 è entrato a far parte del gruppo di China Files, diventandone direttore editoriale nel 2020. Collaboratore di diverse testate in lingua italiana, tra cui La Stampa, RSI, il manifesto e Wired, dal 2021 vive a Taipei, da dove segue la realtà taiwanese e cinese continentale, le relazioni intrastretto e le dinamiche dell’Asia Orientale.

Con la loro specializzazione sulla Cina e sulle interconnessioni fra questa e il mondo globale, Simone Pieranni, Alessandra Colarizi e Lorenzo Lamperti hanno dato un contributo significativo nel far crescere il giornalismo italiano sulla Cina e si trovano in una posizione privilegiata per riflettere sui limiti e sulle potenzialità di quest’ultimo, sugli schemi che strutturano le narrazioni mediatiche dominanti sulla realtà cinese attuale, e sugli strumenti per migliorare il discorso pubblico relativo a quel paese, anche attraverso la creazione di piattaforme innovative e collaborazioni con il mondo accademico. L’intervista è a cura di Marco Fumian.

MF Potreste soffermarvi sulle dinamiche e sugli schemi prevalenti con cui vengono confezionate le notizie sulla Cina nelle redazioni italiane? Quali sono a vostro avviso le difficoltà, anche pratiche, per far passare informazioni complesse da parte dei nostri media quando si parla di Cina?

SP: Partiamo da un dato generale: le difficoltà non riguardano solo la Cina. In generale nella stampa italiana, quotidiani ma anche TV, gli esteri arrivano poco e solo in occasioni di cose gravi (attentati e guerre). Ma anche in quei casi la trattazione è spesso superficiale. Per quanto riguarda la Cina, il trattamento delle notizie cinesi, ormai spesso collegate ad altro, per esempio Usa o Taiwan, dipendono quasi sempre dal clima internazionale, per quanto riguarda la stampa generalista. Nel 2019 la Cina era una straordinaria occasione, poi è arrivato Biden e all’improvviso la Cina è tornata a essere una minaccia, per l’Europa, per gli Usa e per tutti. Dato il respiro internazionale che ha ormai la Cina vediamo meno notizie “strane ma vere” e più questioni legate all’approccio cinese alle questioni internazionali. Va da sé che le notizie sulle questioni interne sono quasi sempre riportate dai media nazionali giorni dopo la loro uscita su qualche media internazionale. Per quanto riguarda la mia esperienza al manifesto, essendo quest’ultimo un giornale storicamente attento agli esteri, all’epoca avevamo spazio per un’agenda nostra, redazionale. Ciò ci ha permesso per esempio di indagare la questione tech prima che diventasse di dominio pubblico. E abbiamo avuto spazio per un inserto sull’Asia che dava grande spazio agli esperti: temi e lunghezza dei pezzi totalmente fuori da ogni logica che domina i media oggi. Ma da allora, e perfino rispetto a circa un anno fa quando si sono svolti i seminari sul discorso pubblico e la Cina, è cambiato molto. La disintermediazione è aumentata. Oggi fare attenzione a cosa dicono i media è perfino superfluo. L’opinione pubblica si forma altrove, mentre i media tradizionali non hanno più alcuna credibilità specie tra i giovani: i giornali sembrano sempre più ripiegati su loro stessi, la TV è una “cosa da anziani”. L’opinione pubblica, dei giovani soprattutto, che ci piaccia o meno si forma sui social. Non Facebook, ma Instagram TikTok e Youtube. Oppure, considerando che gli ascolti sono buoni, spero anche con i podcast.

AC: Si parla sempre più di Cina perché “tocca” parlarne. Perché c’è la percezione che la Cina abbia acquisito un peso economico e politico non più ignorabile. Nella stesso tempo, però, la Cina viene percepita come una realtà “lontana” da un punto di vista tanto geografico quanto culturale, e pertanto soggetta a un interesse sporadico. Si parla di Cina solo quando si deve: quando le contingenze lambiscono più o meno direttamente l’Italia o l’Europa. O quando emergono tematiche ritenute più “potabili” per un pubblico nostrano; ma lo “strano ma vero” continua ad andare per la maggiore. Così, si è via via imposta l’immagine manichea di una Cina minacciosa (oppure meno spesso idealizzata). Il Covid-19 ha esasperato questa tendenza a raccontare la Repubblica popolare attraverso una narrazione degli eccessi: modello da seguire o avversario da combattere. Spesso con repentini cambi di prospettiva a seconda del momento, proprio come avvenuto durante il biennio della pandemia.

Questo approccio superficiale dell’Italia nel trattare la seconda economia mondiale – ma più in generale gli Esteri – restituisce inevitabilmente un’immagine semplificata – a volte distorta – di un paese invece molto complicato. Complice la pigrizia che spinge le redazioni italiane ad accodarsi ai grandi media anglofoni, nella scelta dei temi così come spesso dei tagli. Per accorciare i tempi, la rassegna stampa viene fatta frequentemente attraverso la lettura frettolosa dei titoli, nemmeno degli articoli. Pratica che oltre a disincentivare interpretazioni originali e prospettive nuove, è anche foriera di fraintendimenti. L’utilizzo di lenti eurocentriche o atlantiste è il risultato anche della limitata selezione delle fonti. Che non dipende esclusivamente da fattori linguistici, data ormai l’ampia accessibilità della stampa locale tradotta in inglese. L’originalità pare spesso essere considerata un ostacolo in un settore dove la competizione si gioca sull’omologazione dei contenuti: nessuno vuole/può rinunciare alla “notizia del giorno”. Piuttosto la Cina viene scelta quando ben si adatta a completare il resto della pagina, che di questi tempi viene spartita tra Ucraina, Medio Oriente ed elezioni negli Stati uniti.

Inutile dirlo, questa narrazione semplicistica non necessita la mano di un esperto. Il più delle volte le testate sembrano accontentarsi – a volte la richiesta è esplicita – di una copertura da agenzia. La cronaca prevale sull’analisi, spesso sacrificata per via dei limitati spazi sulle edizioni cartacee. Da qui l’ossessione per i virgolettati rimasticati dall’Ansa, con l’obiettivo di riportare fatti e aggiornamenti fino alla chiusura del giornale. Laddove, forse, oggi più che mai la funzione del giornalista – soprattutto se esperto di Cina – dovrebbe essere quella di spiegare (o quantomeno provare a farlo) le dinamiche all’origine degli eventi. Soprattutto fornire al lettore, bombardato ogni giorno da un surplus di informazioni, strumenti di lettura, chiavi interpretative per capire anziché fruire passivamente le notizie. L’impressione a volte è che la polarizzazione, ancor più che rispondere a un’agenda politica precisa, sia il prodotto di un approccio pressappochista. Forse alimentato da pregiudizi sedimentati negli anni e a cui ha contribuito la sciatteria del giornalismo generalista italiano – anche se non si può negare che in certi casi la Cina venga maneggiata come un argomento “sensibile” considerati gli interessi economici di alcuni gruppi editoriali nel paese.

Non tutto è perduto. Restano i periodici che, se non altro per il fatto di avere maggior spazio a disposizione, sanno ancora apprezzare l’approfondimento e le storie inedite.

LL: La narrazione che si fa della Cina sui media italiani ha vari elementi di criticità. Il primo problema è una mancanza ormai cronica di giornalisti presenti sul territorio. Una questione che riguarda in realtà non solo la Cina, ma in generale gran parte dell’Asia. Tra quotidiani, radio, televisioni e agenzie di stampa, per contare i media con corrispondenti ufficiali di stanza a Pechino le dita di una mano sono già fin troppe. Il motivo? Un po’ per la scarsa attitudine all’apertura verso i giornalisti internazionali da parte cinese, ma parecchio anche per la mancanza di investimenti in tal senso da parte dei media italiani. Da una parte, ottenere l’apertura di un ufficio di corrispondenza dalle autorità cinesi non è certo una questione rapida e immediata. Impresa che diventa ancora più difficile per i media digitali. Dall’altra, i costi necessari al mantenimento di un corrispondente sono piuttosto consistenti. Elemento che funge da deterrente in una fase in cui i media tradizionali stanno vivendo una difficile fase di assestamento, anche a livello economico. Se c’è qualcosa da investire, si preferisce forse farlo altrove. Un po’ per le ragioni di cronaca, che in questi ultimi anni stanno imponendo al centro dell’attenzione soprattutto regioni diverse e più vicine geograficamente all’Europa e all’Italia. Un po’ perché, in generale, l’Asia Orientale viene ancora spesso considerata un qualcosa di più lontano. Nel menu dei media italiani, spesso la sensazione è che Asia Orientale e (in misura minore) Cina vengano ritenuti un “nice to have”, piuttosto che una componente essenziale.

Chi non ha corrispondenti, si affida spesso a professionisti freelance che vivono sul posto, spesso costretti a situazioni di incertezza e precarietà. Oppure si copre la regione con risorse interne, direttamente dall’Italia. Molto spesso è un’operazione che funziona comunque, perché si hanno a disposizione professionisti che hanno alle spalle esperienze anche lunghe in Cina o in altri Paesi dell’Asia, o comunque professionisti che da diversi anni frequentano e studiano quella parte del mondo. Ma servono sia l’una che l’altra cosa. Il confronto con le persone comuni o semplici elementi osservabili sul posto sono una benzina insostituibile per un racconto giornalistico che sappia comprendere il contesto, andare oltre i virgolettati ufficiali, decifrare retoriche e narrative, compiere un esercizio fondamentale per un giornalista che si occupa di Cina: muoversi tra le righe. Anche, forse soprattutto, quelle conversazioni che poi non vedranno mai “la luce” in un articolo o un reportage. La presenza sul posto, abbinata a curiosità e apertura mentale, consentono peraltro di sopperire all’assenza di un bagaglio di studi o esperienze di lunga data sul luogo o la regione che si racconta.

MF Ad acuire le semplificazioni, negli ultimi anni, sono state senza dubbio le crescenti tensioni internazionali, che hanno contribuito a fissare sulla Cina degli sguardi dicotomici spesso assunti per “partito preso”. Potreste parlare di come la politica, anche a seconda dei diversi schieramenti, tende a influenzare le rappresentazioni della realtà cinese nel giornalismo?

SP: Io credo che in realtà di recente sia saltato tutto. Però proviamo a fare questo gioco: la destra è anticinese perché pensano davvero che siano comunisti (o gli fa gioco dirlo). Ma quale destra? Qui già cominciano le complicazioni: la destra al governo. Ma l’estrema destra? L’estrema destra, essendo “antiglobalista” e quindi antiamericana, simpatizza invece spesso con Cina e Russia. La sinistra (sempre che esista) è critica nei confronti della Cina e ultra-atlantista, come la destra al governo. Poi c’è la sinistra “rossobruna”, quella che trova un accordo con l’estrema destra nell’essere antiamericana. Con il risultato che, a partire da queste premesse, finisce che la Cina, la Russia, l’Iran… vanno bene a prescindere. Ecco oggi io non so valutare l’impatto di questo mondo rossobruno, parafascista, che parteggia con tutto quanto si oppone agli Stati Uniti. È qualcosa che è iniziato con la guerra in Siria e via via ha preso piede, nel momento in cui le visioni politiche si sono polarizzate e destra e sinistra – istituzionali, di governo – hanno assunto di fatto le stesse posizione atlantiste. E se pensiamo che oggi la disintermediazione comanda, ecco che questo “gruppo” (pagine, radio, TV, influencer, etc.) sui social finisce per avere un seguito che se non è rilevante – non credo sia possibile quantificarlo – si fa comunque notare, e in qualche modo finisce per inquinare molto i ragionamenti sulla politica estera.

LL: La narrazione mediatica sulla Cina, come su qualsiasi altra cosa, soffre spesso di un certo grado di politicizzazione. È chiaro che sui media di riferimento di un certo spettro politico, viene privilegiato un racconto che alimenti l’immagine della Cina come di una “minaccia”. Altrove, si trova ancora traccia della Cina come “opportunità”. In generale, con l’aumento delle tensioni internazionali tra gli Stati Uniti e Pechino, prevale un’inclinazione negativa o comunque stereotipata. Il più delle volte, in realtà, non si tratta di influenze politiche o diplomatiche, quanto del tentativo di avvicinare al lettore italiano un tema che si ritiene risulti troppo lontano e dunque di scarso interesse.

Va sottolineato che negli ultimi anni sono aumentati i canali di riflessione più approfondita sulla Cina e sull’Asia. Ma, facendo una colpevole generalizzazione, ecco allora l’utilizzo di semplificazioni e paragoni spesso lontani dall’essere calzanti. Un esempio potrebbe essere l’erroneo parallelo tra la crisi del colosso immobiliare cinese Evergrande e il collasso di Lehman Brothers. In questo caso, per esempio, è stata raramente raccontata l’azione del governo cinese (risalente peraltro ad alcuni anni prima della pandemia) di rimodellare il settore immobiliare, poggiato su un modello a debito giudicato troppo rischioso. Gli effetti collaterali sul settore, a partire da Evergrande, erano stati in parte messi in conto. Ma si sono amplificati anche e soprattutto a causa del Covid e del rallentamento dei consumi.

C’è poi spesso una tendenza alla semplificazione che rischia di restituire una “verità” parziale di quanto si sta raccontando. Le relazioni tra Cina e Russia vengono ormai regolarmente identificate sotto l’ombrello della cosiddetta “amicizia senza limiti”. Piuttosto comprensibile, visto che Pechino ha effettivamente utilizzato questa etichetta a inizio 2022. Etichetta che le ha poi causato diversi problemi nei rapporti con l’Europa nel corso della guerra in Ucraina. In realtà, quella formula è stata rapidamente (anche opportunisticamente) accantonata dalla parte cinese e nei documenti congiunti siglati in occasione delle rispettive visite di Stato di Xi Jinping e Vladimir Putin non è più comparsa. Ma una volta che è entrata nel bagaglio lessicale del sistema dei media non ne è più uscita e continua a guidare l’interpretazione di tutto quanto accade tra Pechino e Mosca. È innegabile che le relazioni tra Cina e Russia siano solide e sembrano anche destinate a intensificarsi in un contesto di competizione o rivalità con gli Stati Uniti. Tenendo questo a mente, vanno però raccontati anche gli elementi che danno segnali diversi. L’azione cinese in Asia Centrale, il contropiede russo tra Corea del Nord e Vietnam, i temporeggiamenti di Pechino sugli strombazzati accordi energetici sono tutte componenti di una storia che è spesso più complessa di come viene raccontata.

Ogni tanto, anche sulla Cina i media sono legittimati a “complicare” le cose. O meglio, a raccontare cose complesse. C’è una grande differenza tra il semplificare e provare a raccontare in modo semplice. Ecco, forse il giornalismo su Cina e Asia deve provare a raccontare cose complicate in modo semplice, ma senza semplificare. Tenendo presente e dando conto delle dichiarazioni e narrazioni ufficiali, ma possibilmente andando oltre ed essendo in grado di restituire il significato e gli obiettivi di quanto si dice e soprattutto di quanto accade.

Si tratta di un compito cruciale su diversi temi che gravitano intorno alla Cina. Tra questi c’è Taiwan, che in una classifica delle questioni complesse da comprendere e raccontare occupa senz’altro una delle prime posizioni. Già menzionare la “Repubblica di Cina”, nome ufficiale con cui Taiwan è sin qui rimasta indipendente de facto insieme (tra gli altri territori minori) alle isole Penghu, a Kinmen e alle Matsu, risulta problematico. Eppure, non menzionare quel nome e non capire che cosa significa rende assai difficile capire come sia possibile che in un’intervista pre-elettorale un candidato alla presidenza possa dire che Taiwan deve “difendere la sua sovranità e la sua indipendenza”, ma contemporaneamente definirsi contrario a una “dichiarazione di indipendenza”.

MF Parliamo un po’ dell’esperienza di China Files e dei suoi approcci all’informazione sulla Cina. A che pubblico si rivolge, e in che modo China Files cerca di portare avanti un’informazione sulla Cina più variegata e approfondita?

AC: Diciamo innanzitutto che nel panorama dell’informazione China Files occupa sicuramente una posizione peculiare. Trattandosi di un sito specialistico, i temi offerti sono decisamente di “nicchia”. Oltre alla cronaca, coperta con la nostra rassegna stampa quotidiana, è possibile trovare analisi di argomento culturale o su problematiche legate al mondo del lavoro in Cina. Mentre buona parte dei nostri lettori proviene da studi sinologici, c’è tutta una platea di non esperti incuriosita dal paese o interessata a conoscerne meglio alcuni aspetti specifici per scopi professionali. La sensazione è che anche chi è legato al paese da un rapporto prettamente di business è consapevole sia necessario acquisire una conoscenza più profonda della società cinese e del suo modo di pensare. Insomma, il lettore è il primo a chiedere uno sguardo diverso sulla Cina. Certo, c’è lettore e lettore. Ma la scelta di escludere dagli organi d’informazione i cosiddetti temi interni, relativi alle dinamiche locali della società cinese, in quanto considerati troppo “oscuri”, lascia un vuoto enorme nella copertura mediatica della Cina in Italia. Anche perché forse sono proprio le articolazioni domestiche a fornire maggiori indizi sul corso futuro del paese. Va detto che il contesto geopolitico ha reso la trattazione della Cina estremamente scivolosa. È sempre più difficile riuscire a mantenere la giusta distanza: basta un nulla per venire rubricati come filo- o anticinesi. A giorni alterni. In questo, come già detto, i media hanno la loro responsabilità avendo contribuito a diffondere l’immagine di un paese in bianco e nero. Ma non è possibile ignorare la crescente disillusione verso la democrazia occidentale: agli occhi di molti, la Cina, con la sua crescita economica – per quanto oggi traballante – e il suo status internazionale, rappresenta un’alternativa di successo. Sebbene a volte questa infatuazione per la potenza asiatica nasca semplicemente dall’insofferenza verso gli Stati Uniti anziché da un’ammirazione consapevole nei confronti del “modello cinese”. Ovviamente, l’idealizzazione del “Beijing consensus” regge solo con l’omissione di altrettante criticità. Basta tornare a occuparsi per un attimo del Xinjiang (già sparito dai radar mediatici) per venire appellati sui social network come “Cia Files”.

Quanto agli approcci, diciamo che la linea di China Files consiste nel non avere una linea. Ovvero cercare di mantenere un punto di vista il più obiettivo possibile sul paese senza seguire tesi precostituite. Il punto di partenza credo sia cercare di bilanciare l’informazione mainstream di stampo anglosassone dando voce al punto di vista cinese senza però scadere nella propaganda. Quindi non facendo da megafono al Partito-Stato, bensì ascoltando il parere di analisti indipendenti. Seppur sempre più schivi e timorosi davanti alla richiesta dei giornalisti occidentali, gli intellettuali hanno ancora molto da dire. Altrettanto indispensabile è la diversificazione dei contenuti: China Files si è sempre posta come realtà a metà strada tra la sinologia e il giornalismo. Chi collabora al progetto (Gian Luca Atzori, Serena Console, Camilla Fatticcioni, Lucrezia Goldin, Francesco Mattogno, Vittoria Mazzieri, Sabrina Moles, Agnese Ranaldi) ha studiato una o più lingue orientali, ha vissuto in Asia, insomma conosce bene il contesto di cui parla. Di conseguenza abbiamo una sensibilità particolare verso questioni che difficilmente otterrebbero attenzione sui media tradizionali. Al surplus di fatti rispondiamo con la trattazione di temi socio-culturali indispensabili per interpretare correttamente quanto leggiamo tutti i giorni sulla cronaca. In questa direzione va la pubblicazione sporadica di estratti di tesi e saggi specialistici per rendere accessibile la produzione accademica anche ai lettori non specializzati.  Con questo tipo di approccio la conoscenza del mandarino costituisce finalmente un “plus”, laddove la produzione per i quotidiani – per tempistiche di consegna (strettissime) e superficialità della richiesta – bisogna ammettere che raramente permette/esige una ricerca su fonti in cinese.

MF Proviamo ad approfondire allora il rapporto fra giornalismo e mondo accademico. Simone Pieranni, in particolare, in questi anni ha portato avanti un intenso dialogo con i “sinologi”, promuovendo discussioni congiunte e presentando molto spesso il proprio lavoro nelle aule universitarie confrontandosi con gli studenti. Che idea ti sei fatto delle potenzialità delle collaborazioni fra giornalismo e accademia sulla Cina? Quali potenzialità e quali limiti trovi nell’apporto degli studiosi italiani sulla Cina nel diffondere ad ampi livelli conoscenze sulle dinamiche attuali di quel paese, e quali aspetti positivi o lacune trovi nelle conoscenze degli studenti universitari su quel paese e sulle dinamiche politiche globali? 

SP È un tema molto complicato, ma di recente mi sono trovato d’accordo con la definizione di “sideline synology” (sinologia “a bordocampo”) data da Peter Hessler. Tanti sinologi, cioè, non vanno in Cina da anni, si sono fissati sugli aspetti sempre più repressivi del regime sotto Xi Jinping (e chi lo nega!), ma poi si rischia di perdersi quello che succede intorno. Si dimenticano i cinesi. Se io leggo Ian Johnson e il suo libro Sparks, trovo il senso di quello che faccio, cioè cercare sempre quella traccia sotterranea che smentisce una narrazione stereotipata della Cina, sia da parte di chi non la conosce sia da parte di chi si definisce sinologo. E questo vale per la sinologia in generale. Ma non sarei onesto se non sottolineassi una cosa: Jeremy Barmè può non piacere (a Hessler non piace, a me sì), ma è un sinologo che “rischia”, scrivendo di Cina contemporanea. Oggi in Italia chi lo fa? C’è un sinologo o una sinologa che si prende il fardello di scrivere su un quotidiano nazionale che cosa sta succedendo in Cina dal suo punto di vista? No. A me piace collaborare, andare all’università, trovare ascolto e confrontarmi e mi pare di notare che specie tra professor* più giovani si comincino ad esempio a utilizzare nuovi strumenti, per andare incontro a un interesse che magari come primo approdo non arriva al libro di testo. Ma magari dopo sì. È un discorso immenso che non ha a che vedere solo con la Cina ma in generale con l’accademia in Italia e non voglio entrarci anche perché non saprei come farlo. Mi limito a dire che è tempo di tornare in Cina, di tornare a scavare, perché ho la percezione stia cambiando tutto. Qui e lì.

MF Parliamo delle narrazioni dominanti sulla Cina e sui loro limiti a partire degli argomenti specifici di cui vi siete più spesso occupati, la tecnologia per Simone Pieranni, l’Africa per Alessandra Colarizi, Taiwan per Lorenzo Lamperti.

SP In ambito tecnologico, un esempio che spicca su tutti è quello dei crediti sociali, ma in generale io trovo questo atteggiamento cambiato. Mi spiego, ciò è avvenuto non tanto a livello mainstream, ma come dicevo prima secondo me il mainstream non andrebbe neanche più calcolato come vettore di formazione di opinione pubblica specie tra i giovani. E tra i giovani la lettura sulla Cina “cattiva” non trova spazio nello stesso modo dei media mainstream. Solo chi non ha mai letto niente al riguardo (come chi gestisce l’informazione mainstream) può ancora dire che il capitalismo della sorveglianza ad esempio non esiste. Tutti sanno che ormai la tecnologia ha un risvolto inquietante anche da noi, la cosa che a me preme sempre sottolineare è che da noi, almeno in teoria, ci sono più possibilità di “sorvegliare il sorvegliante”, anche se il recente perimetro normativo cinese relativo al controllo dei dati ha fatto notizia anche da noi, come un cambiamento, o meglio, un’evoluzione importante. Prendiamo un dibattito recente: quello sulle auto elettriche. Al di là che si sappia o meno come si è sviluppato questo mercato in Cina, mi è capitato di partecipare a trasmissioni TV dove in realtà la Cina viene vista come la potenza lungimirante e l’Europa come un ammasso di confusionari che ora si sparano sui piedi con i dazi. E queste cose le dicono esperti di automotive, me l’ha detto perfino off the record l’ambasciatore tedesco a Roma! Poi ovviamente i politici, che non ne sanno NIENTE, continuano a dire, “eh, ma i sussidi!” Dimenticando ad esempio che i sussidi statali cinesi arrivano a tutte le aziende. Anche alla Tesla, per dire. Anche alla Volkswagen. Insomma c’è molta confusione, ma in generale perdendo peso i giornali mainstream (polarizzati su Cina cattiva e Usa buoni) io credo che la situazione sia meno polarizzata anche se non certo più approfondita. Dal mio punto di vista, però, con i podcast, con le presentazioni, con i social, io credo di avere una comunità di persone che segue il mio lavoro e i temi di cui mi occupo piuttosto evoluta: che si informa, che legge e che si interroga. Al mainstream ho contrapposto una nicchia, ma credo sia l’unica soluzione per avere un ambito sano dove discutere di certe cose. Non sfuggo al mainstream. Ma se poi dall’altra parte c’è chi come Rampini che pensa che debba essere ringraziato l’Occidente da tutto il mondo, come dire, ci vado, cerco di essere preciso, ma non affido alcuna speranza a quel momento.

AC In Occidente siamo abituati a considerare l’Africa come una nostra competenza. A questo proposito è indicativa la reazione sbigottita del giornalista francese Darius Rochebin che, intervistando nel maggio 2024 il presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi, sembra non riuscire a credere che il proprio interlocutore possa veramente preferire trattare con la Russia e la Cina anziché con l’Europa. Perché “non vengono da noi con lo stesso tipo di arroganza [degli occidentali] e per farci la predica”. Questo punto è fondamentale anche per un altro motivo. La narrazione della Cina in Africa, per come viene veicolata alle nostre latitudini, raramente tiene in considerazione il punto di vista africano. Quindi quello che ho fatto con il libro Africa rossa è stato proprio cercare di consultare più fonti possibili, sentire più voci, soprattutto le voci di chi studia da anni e conosce bene il continente.  La cosiddetta “trappola del debito”, la presunta invasione degli immigrati cinesi… molti di questi stereotipi oltre a essere costruiti su informazioni imprecise sono anche molto datati. Quando si parla di Cina e Africa si ha ancora in mente il rapporto così com’era dieci anni fa. Non necessariamente si tratta di un’operazione consapevole: o meglio condotta appositamente con lo scopo di disinformare. Che sia così lo dimostra il fatto che i progetti lanciati da UE e Stati Uniti per competere con la Belt and Road Initiative cinese hanno avuto scarso successo proprio perché poggiano su presupposti anacronistici. Come lamentato da Tshisekedi, le vecchie potenze sono accecate dalla presunzione di ritenere il proprio modello il migliore e i propri valori universalmente validi. Riconquistare il terreno perso non è impossibile. Per l’Africa, infatti, la Cina spesso è l’unica scelta, ma non necessariamente la migliore: non è un esempio di trasparenza, ama raccontarsi con toni enfatici che ispirano molta poca simpatia e scarsa fiducia.

LL Stando da qualche tempo a Taipei, si assiste spesso ad alcune tendenze che rischiano di dare un’immagine distorta di quanto accade o non accade. Senza entrare in disquisizioni storiche o geopolitiche, un errore ricorrente commesso da alcune fonti in lingua italiana (spesso tratte in inganno dalle traduzioni approssimative in inglese di fonti originariamente in lingua cinese) è quello della confusione tra spazio aereo e spazio di identificazione di difesa aerea. Innumerevoli volte è capitato di leggere il resoconto dei jet e navi dell’Esercito Popolare di Liberazione che ogni giorno si muovono nella regione intorno a Taiwan, con riferimento errato allo “spazio aereo” piuttosto che allo spazio di identificazione di difesa aerea. Non si tratta di una sottigliezza, ma di una questione dirimente. Così come accade per la delimitazione di acque sovrane o acque contigue, lo spazio aereo si estende per una porzione di territorio molto ristretta rispetto alle coste dell’isola principale di Taiwan. Lo spazio di identificazione di difesa aerea è invece una porzione di territorio molto più ampia che in parte si sovrappone con quella della Repubblica Popolare. Utilizzare il termine “spazio aereo” genera una percezione di rischio immediato che, fortunatamente, non si è fin qui materializzata. Utilizzare il termine “spazio di identificazione di difesa aerea” non significa sminuire le manovre, ma dargli la giusta proporzione.

Attenzione poi alla “sorpresa” per le dichiarazioni di Xi o di altri esponenti del governo cinese sulla “riunificazione inevitabile”. Frasi certo rilevanti, ma che rappresentano il minimo comune denominatore della retorica del Partito Comunista su Taiwan. Giusto riportarle e analizzarle, ma all’interno di un contesto ragionato in cui non si dia per scontato che si tratti di elementi “eccezionali”, aumentando dunque il senso di pericolo. Spesso non si tratta di posizioni politicizzate, ma di una conoscenza non approfondita di quanto si sta raccontando, che emerge talvolta anche in contenuti che hanno un approccio profondamente critico della Repubblica Popolare, finendo però per usarne inconsapevolmente le formule lessicali nella descrizione di Taiwan, sminuendone dunque lo status. Andrebbe peraltro compreso che per Xi e per il Partito la priorità di quanto si dice o si fa su Taiwan è anche quella interna. È vero che nel recente passato sia stato fomentato un sentimento nazionalista che ha generato maggiore interesse alla “soluzione” della questione di Taiwan, ma allo stesso tempo ci sono stati alcuni episodi (colti raramente) che testimoniano il tentativo di Xi di continuare a dimostrare fiducia verso l’ipotesi di “riunificazione pacifica”, come l’incontro di aprile 2024 con Ma Ying-jeou, nella prima visita di un leader o ex leader della Repubblica di Cina a Pechino dalla fine della guerra civile. Predicando “pazienza strategica”, l’obiettivo è quello di mantenere il controllo del dossier e non farsi imporre azioni considerate premature. Ciò non significa che un’azione militare nel futuro anche prossimo sia impossibile. Come si è imparato ad altre latitudini, è difficile escludere qualsiasi cosa. Il compito principale del giornalista non dovrebbe però essere quello di fare pronostici, soprattutto non quelli basati su interpretazioni o resoconti incompleti o approssimativi.

Di semplificazione soffre molto anche la situazione politica interna, in cui i due partiti principali vengono sbrigativamente etichettati come “filoindipendentisti” – nel caso del Partito Progressista Democratico (DPP), al governo dal 2016 – o “filocinesi” – nel caso del Guomindang (GMD), la principale forza di opposizione che fu di Sun Yat-sen o Chiang Kai-shek. La definizione utilizzata per il GMD è particolarmente problematica, visto che la traduzione del suo nome completo è Partito Nazionalista Cinese. Se si vuole veicolare l’immagine di un partito vicino alla Repubblica Popolare, sarebbe allora forse più appropriato parlare di partito “filo-Pechino”. L’attenzione a intermittenza porta a credere che il “problema” nasca da eventi specifici, come la visita di Nancy Pelosi a Taipei nel 2022. Lo stesso accade su altri aspetti, portando talvolta a un’esagerazione e altre volte e a una sottovalutazione. Nel primo caso si possono citare i microchip, elemento senz’altro essenziale per comprendere le dinamiche che intercorrono tra Pechino, Taipei e Washington. Ma non sono certo la “vera ragione” della questione taiwanese, aperta da ben prima che si producessero i semiconduttori. Vero che i microchip possono giocare un ruolo di parziale deterrenza, ma non sono e saranno l’unica ragione per cui in futuro sullo Stretto si deciderà di combattere oppure si eviterà di farlo. Nel secondo caso, quello delle sottovalutazioni, sarebbe da menzionare invece una sempre più nutrita lista di mosse “normative”, soprattutto da parte delle autorità cinesi. Queste però vengono spesso ignorate, perché sono di rilevanza meno immediata a un pubblico lontano rispetto alle ormai ricorrenti esercitazioni militari. Eppure, misure concrete come l’arresto di un cittadino taiwanese residente nella Repubblica Popolare, la rimozione di agevolazioni tariffarie su una lista di prodotti taiwanesi, le accuse penali di secessionismo, oppure il visto negato a un cantante che dice di ritenere Taiwan parte della Cina sono vicende che (a torto o a ragione) toccano per ora più direttamente la gente comune.

In diversi reportage si dà invece attenzione quasi esclusiva agli aspetti che privilegiano la sensazione di “catastrofe imminente”. Ed ecco allora i ricorrenti racconti delle nuove organizzazioni di “resistenza civile”, in cui i partecipanti vengono istruiti a tecniche base di sopravvivenza o eventualmente a maneggiare un’arma. Si tratta senz’altro di fenomeni interessanti e inediti, ma ancora assai circoscritti. Enfatizzarli senza rendere conto di quale sia (ancora una volta, a torto o a ragione) l’approccio quotidiano più ampio della popolazione locale, quasi sempre paradossalmente sottorappresentata anche nei contenuti che parlano di Taiwan, rischia di dare un’immagine distorta. Come il governo cinese, anche il governo taiwanese ha una narrazione che cerca di diffondere sul piano internazionale. Vanno entrambe conosciute per evitare non solo semplificazioni, ma anche inconsapevoli politicizzazioni, cadendo nella logica delle tifoserie. Questo non significa mettere tutto sullo stesso piano, ma cercare di mantenere una “giusta distanza” da quanto si racconta. Provando ogni tanto a porre domande, invece di dare facili risposte.