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Gig-ology – Le fedeli badanti di Taiwan

In Gig-ology by Vittoria Mazzieri

Circa il 30% dei 690 mila lavoratori migranti di Taiwan è impiegato nella economia di cura: decine di migliaia di badanti e assistenti domestiche provenienti dai paesi del Sudest Asiatico che sperimentano discriminazioni diffuse oltre che l’esclusione dalle legge sugli Standard lavorativi. Ma a molto poco dal diventare una super-aged society, Taiwan ha bisogno di lavoratrici che siano “fidelizzate”. Gig-ology è una rubrica sul mondo del lavoro asiatico.

A fine giugno scorso, le associazioni di lavoratori migranti di Taiwan hanno pubblicato un comunicato congiunto per riportare quella che sembra essere la prima vittoria in tribunale di una causa contro gli abusi delle forze di polizia. Il fatto risale ad agosto dello scorso anno. Una donna migrante era uscita dall’abitazione in cui lavorava come badante a Nuova Taipei per buttare la spazzatura ed era stata fermata per un controllo di routine. La situazione era poi degenerata in fretta. Trovandola sprovvista di documenti, gli agenti di polizia l’avevano ammanettata e scortata alla stazione più vicina, dove tuttavia non avevano riscontrato incongruenze in merito al suo status legale.

Nel giro di poche ore l’accaduto era stato denunciato dall’associazione taiwanese Domestic Cartaker Union, che aveva anche raccontato il traumatico rilascio: la donna era stata lasciata a bordo strada lontana da casa, costretta a tornare a casa in lacrime con il supporto del navigatore. La sentenza vittoriosa è giunta dopo poco meno di un anno di indagini: il tribunale ha dichiarato uno dei poliziotti colpevole di reato di offesa alla libertà e lo ha condannato a quattro mesi di carcere e due anni di libertà vigilata. Il comunicato congiunto diffuso questa estate ha sottolineato, tuttavia, come una singola vittoria non possa risolvere la lunga serie di “indagini discriminatorie” condotte dalle forze di polizia ai danni dei lavoratori migranti.

I lavoratori migranti a Taiwan

Le quasi 690 mila persone (un numero che ha registrato un leggero calo nell’ultimo anno a causa delle restrizioni della pandemia) che migrano a Taiwan dai paesi del Sudest Asiatico sperimentano un altro grado di vulnerabilità e denunciano discriminazioni continue, nella vita e nel lavoro. Una esclusione che si riflette anche nella loro quasi totale assenza dal discorso pubblico, a tal punto che accademici e attivisti parlano di quella che a tutti gli effetti assume le caratteristiche di una divisione sociale su due livelli. Ma il loro contributo all’economia della Repubblica di Cina (il nome ufficiale con cui Taiwan è indipendente de facto) è sempre più indispensabile. Più della metà è impiegata nel comparto industriale, incluse le prestigiose aziende che producono semiconduttori.

Lavoratrici dell’economia di cura

Circa il 30%, in prevalenza donne, lavora come assistenti domestiche e badanti. Degli oltre 200 mila migranti impiegati nell’economia di cura, poco più di 15mila è dipendente di ospedali e istituti. La gran parte lavora a diretto contatto con i nuclei familiari che necessitano dei loro servizi. Un rapporto che assume le caratteristiche di quello tra cliente e lavoratore autonomo e che esclude questa categoria dalla Labor Standards Act, la legge che garantisce la protezione dei diritti dei lavoratori (inclusi i migranti colletti blu).

Ciò comporta la loro l’esclusione dal sistema di welfare e da una precisa regolamentazione sull’orario lavorativo. I dati del ministero dello scorso anno hanno evidenziato come oltre il 74% delle operatrici sanitarie domestiche non benefici di alcun giorno libero, una percentuale che è più che raddoppiata dai tempi pre-pandemia. In una società come quella taiwanese, dove quasi una persona su cinque ha più di 65 anni e la percentuale è in netto aumento (potrebbe superare il 40% entro il 2060), c’è un estremo bisogno di rendere questo genere di professioni più “sicure”.

Lavoratrici fidelizzate

In quest’ottica, a fine febbraio il governo ha approvato un programma di “fidelizzazione” che mira ad apportare miglioramenti per le normative vigenti al fine di reclutare i talenti di medio livelli stranieri. Ma perché riescano a qualificarsi come “manodopera qualificata intermedia”, si chiede ai lavoratori migranti di superare un test che accerti la loro capacità linguistiche in cinese, di aver accumulato una esperienza lavorativa di sei anni a Taiwan e di percepire un salario medio mensile di oltre 24 mila dollari taiwanesi.

Requisiti già contestati dalle associazioni di categoria. Confinate nelle case dei loro datori di lavoro, prese dalle urgenze dell’accudimento di anziani e disabili, le badanti difficilmente trovano il tempo di frequentare eventi pubblici e corsi di lingua. Per non parlare del salario, che resta al di sotto del tetto dei 24 mila dollari taiwanesi malgrado la misura approvata dal ministero del Lavoro nelle scorse settimane: un aumento di 3 mila dollari taiwanesi di cui si parlava da mesi, con il quale il minimo salariale ha raggiunto i 20 mila. Ma che, come nel precedente caso del 2015, non sarà applicabile ai contratti esistenti ma solo a quelli di nuova stipulazione, escludendo centinaia di migliaia di persone.

Il sistema di intemediazione del lavoro

Come denunciano molte associazioni di categoria, uno dei problemi che pesa maggiormente sulle loro condizioni lavorative è il sistema di intermediazione del lavoro, una giungla di servizi di collocamento privati che si figura ad oggi come l’unico ponte tra paesi come Indonesia, Filippine, Vietnam e Thailandia e la Repubblica di Cina. Se la tariffa “standard” si aggira tra i 1500 e i 1800 dollari taiwanesi mensili, quella richiesta dai cosiddetti broker, intermediari che assicurano un pacchetto di servizi ancora più ampio (l’impiego per ottenere il work visa, l’alloggio all’arrivo, corsi di lingua e training pre-partenza), può arrivare a tre volte tanto.

Per una maggiore “fidelizzazione” della forza lavoro basterebbe, in ogni caso, includere anche badanti e assistenti domestiche nelle tutele previste dalla legge sugli standard lavorativi. Ma il governo non sembra voler procedere verso questa direzione e lo conferma quanto comunicato qualche mese fa dal ministero del Lavoro: a rendere difficile l’applicazione indiscriminata della legge vigente sarebbero le “ovvie differenze” insite nel lavoro di cura rispetto alle occupazioni “normali”.