Nelle scorse settimane alcune aziende cinesi hanno comunicato di aver vietato gli straordinari e aver imposto l’obbligo di staccare dal lavoro entro una certa ora. Si tratta di una vera e propria campagna di “de-involuzione”, a cui lo stesso Xi Jinping ha fatto riferimento chiedendo di porre fine alla “concorrenza involutiva”. Gig-ology è una rubrica sul mondo del lavoro asiatico.
“Per la prima volta in vita mia sono stato obbligato a uscire dall’azienda”, racconta sui social media un dipendente dell’azienda cinese produttrice di droni DJI, dopo che nelle scorse settimane la società ha comunicato ai suoi lavoratori l’obbligo di staccare dal lavoro entro le 9 di sera. Sul web i commenti che accompagnano il risultato di ricerca “强制晚上9点下班”(qiangzhi wangshang jiudian xiaban, tradotto come “essere obbligato a staccare dal lavoro alle nove”) seguono tutti questo tenore, oscillando tra l’incredulità e il sollievo.
Secondo il portale di notizie cinese Guancha, in Cina sta prendendo il via una vera e propria campagna di “de-involuzione” (fan neijuan, 反内卷), che punta a invertire un trend di cui si parla da tempo nel paese, sia nei circoli intellettuali che in termini di slang da social. Utilizzato in ambito accademico, “involuzione” (neijuan, 内卷) indica l’insieme di quei processi che ostacolano il progredimento di una società. È l’esito di una vera e propria cultura del “troppo lavoro”, che si è dimostrata essere inefficace sia in termini di soddisfazione personale che di raggiungimento degli obiettivi nazionali. E per la prima volta Pechino ha espresso nero su bianco la volontà di rettificare il processo.
Lo scorso dicembre, nel delineare le priorità per il 2025 in occasione della Conferenza centrale sul lavoro economico, Xi Jinping ha segnalato la necessità di prevenire la “concorrenza involutiva” (neijuanshi jingzheng, 内卷式”竞争): una espressione, chiarisce Guancha, che ha un significato piuttosto ampio e si riferisce genericamente tanto “all’espansione disordinata della capacità produttiva delle imprese” quanto “alla feroce guerra dei prezzi”. Lo sviluppo di quelle che il leader chiama le “nuove forze produttive”, vale a dire tecnologia verde, chip e intelligenza artificiale, va perseguito senza “abbandonare le industrie tradizionali” e senza distorcere il mercato con un sovra utilizzo di sussidi. La Cina del futuro sembra dire no alla crescita indiscriminata e a pericolosi indebitamenti, come accaduto con l’immobiliare.
La cultura del troppo lavoro si inserisce in tutto e per tutto tra i fattori di involuzione della società. Imporre lunghi orari di lavoro è ormai manifestazione di una strategia inefficiente e insostenibile nell’attuale contesto di mercato, come scrive ancora Guancha. Un tema tornato anche quest’anno al centro delle “due sessioni”. Nel 2024, a pochi mesi dal ricalcolo dei poco promettenti dati sulla disoccupazione, il governo aveva promesso di creare oltre 12 milioni di nuovi posti di lavoro nelle città, un obiettivo che secondo i dati ufficiali è stato addirittura superato. Lo scorso anno sul tema del troppo lavoro era intervenuto Lü Guoquan, membro della Conferenza consultiva del popolo cinese e anche direttore dell’ufficio generale della Federazione sindacale (ACFTU), l’unico sindacato riconosciuto nel paese, che aveva avvertito dell’urgenza di occuparsi di migliorare l’equilibrio tra vita e lavoro e monitorare gli ambienti aziendali per prevenire la trappola degli “straordinari invisibili”.
Nelle plenarie dell’Assemblea Nazionale del Popolo e della Conferenza Consultiva del Popolo di quest’anno, è stato ribadito l’obiettivo di creazione di nuovi posti di lavoro e si è tornato a parlare dei lavoratori gig, una categoria tra le più fragili che il governo ha detto di voler monitorare attentamente nel corso del 2025. Secondo Wang Xiaoping, ministro delle Risorse umane e della Sicurezza sociale, le loro richieste in termini di migliori tutele previdenziali sono state ascoltate: un programma lanciato nel 2022 in sette aree tra provincie e aree metropolitane, tra cui Pechino e Shanghai, ha fornito l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ai lavoratori autonomi delle piattaforme. Il piano, che Wang ha promesso di riproporre presto in altre provincie, fa il paio con le intenzioni annunciate a fine febbrario dai colossi del food delivery cinese, Meituan, Ele.me e JD.com, che hanno comunicato di voler ampliare la copertura previdenziale per i propri fattorini.
L’intervento di Lü Guoquan di quest’anno ha ribadito la necessità di perfezionare i regolamenti sul lavoro e di garantire due giorni di riposo a settimana. Rispondendo alla chiamata anti-involutiva, altre aziende hanno seguito o anticipato l’esempio di DJI. Il 10 marzo Midea Group, produttrice di elettrodomestici, ha annunciato che a nessun dipendente sarebbe stato consentito di rimanere negli uffici dopo le 18:20. Già a febbraio Haier, altro colosso di elettronica di consumo, ha introdotto proprio due giorni di riposo obbligatori a settimana. Varcare la soia del luogo di lavoro il sabato sarebbe ora praticamente vietato.
“De-involuzione”, quindi, sembrerebbe indicare un netto cambio di rotta dal temibile mantra del 996: sigla che dai blog di sviluppatori e programmatori finisce per definire una norma non scritta di turni di 12 ore al giorno e un solo giorno libero alla settimana, e quindi il ritratto di un’intera nazione dedita – o obbligata – al lavoro e alla corsa al successo. L’attenzione del governo alla regolamentazione della condotta delle grandi società del tecnologico si evidenzia già da tempo: nel 2021, in piena pandemia e in piena campagna di rettificazione delle Big Tech, Pechino tenta anche di disciplinarne le condizioni di lavoro interne. In un documento emesso dalla Corte suprema del popolo cinese e dal Ministero delle risorse umane, si precisa che turni di lavoro così impegnativi vanno considerati “non validi”.
Ma più che una decisione calata dall’alto, al cambio di paradigma partecipa anche e soprattutto la diversa percezione che le nuove generazioni hanno del lavoro. Il palcoscenico dei social media ha dato modo alla Gen Z di dare sfogo delle proprie frustrazioni e a chiarire di non essere più disposti ad accettare gli standard lavorativi che hanno costituito la norma per le generazioni precedenti.
Le nuove misure adottate da alcune grandi aziende sono state però salutate con scetticismo da alcuni utenti, che sul web hanno condiviso i propri timori che lo stop forzato del lavoro si potrebbe ripercuotere sul salario mensile, visto che significherebbe non poter fare gli straordinari. Nella sua newsletter “Il Partito”, Simone Pieranni raccoglie alcuni commenti dei media cinesi sul tema. Secondo il China Daily, ad esempio, “esiste il timore che l'”anti-involuzione” si trasformi in una tendenza temporanea, priva di reale impatto. Si temono inoltre le resistenze, con i dipendenti abituati agli straordinari e i dirigenti preoccupati per la produttività. Inoltre si rischia lo spostamento delle ore lavorative, dall’ambiente di ufficio a quello domestico”.
Lian Si, de-involuzione e la “tirannia del tempo”
Il culto della velocità degli ultimi decenni ha trasformato le persone in meri strumenti per completare gli obiettivi del vecchio modello di sviluppo cinese. A dirlo è Lian Si, nome noto nei circoli delle scienze sociali della Repubblica popolare e anche vicepresidente della China Youth University of Political Studies, università fondata a Pechino dalla Lega della gioventù comunista, principale organizzazione politica giovanile in Cina e fucina dei futuri leader del paese.
Negli ultimi anni Lian Si ha condotto ricerche sulle sfide occupazionali delle categorie più giovani della popolazione e su fenomeni come la “tribù delle formiche”, a cui il sociologo dedica uno studio che verrà poi pubblicato nel 2009 diventando in breve tempo un vero e proprio bestseller. Il tema, su cui si continuerà a scrivere negli anni a seguire, riguarda le condizioni dei neolaureati con un reddito mediocre che dalle proprie città natali migrano per cercare opportunità nelle grandi metropoli del paese, dove però restano confinati nelle periferie e in una stato di eterna precarietà. Nel 2013 Gaia Perini scrive:
“Nei sobborghi di Pechino, Shanghai o Chongqing, lì dove la città e la campagna si fondono in unico paesaggio lunare, un posto letto costa appena 400 rmb al mese (50 euro ca.); la struttura del quartiere in un certo modo replica quella del dormitorio del college, in cui questi ex-studenti universitari hanno trascorso almeno quattro anni della loro vita. La protratta condivisione degli spazi e la vita gregaria, tuttavia, non sempre generano un senso di appartenenza allo stesso gruppo sociale.
Ognuno di loro sta cercando lavoro, oppure cerca di resistere nel posto di lavoro che ha già trovato. C’è chi fa il cameriere e chi vive attaccato alla cornetta di un call center; la ragazza che al supermercato ci strattona per la manica, insistendo per farci provare un tè dimagrante al ginseng o una nuova marca di patatine al gusto di arrosto di maiale, potrebbe essere laureata in inglese o in economia e commercio”.
Il giornalista Fred Gao, nella newsletter Inside China, introduce e riporta la traduzione di una recente conversazione di Lian Si con il Beijing Youth Daily (qui la versione originale), in cui il sociologo parte dal concetto di “tirannia del tempo” (shijiande baozheng, 时间的暴政) per riflettere sulla “de-involuzione”.
Lian Si sostiene che è necessario mettere a punto una serie di misure per regolamentare la concorrenza, promuovere la “de-involuzione” e aiutare le persone a sfuggire alla pressione del tempo. In sostanza, secondo lo studioso, le persone sono in balia di una “trilogia della tirannia”: quella del tempo, dei KPI (gli indicatori di prestazione) e della perfezione. La prima, a cui il Lian Si dedica un saggio nel 2021, è una tirannia invisibile eppure onnipresente, che condanna all’imposizione di continue scadenze e al contempo a provare un senso di perenne insoddisfazione anche qualora si riesca a rispettarle. Ci si impone standard sempre più elevati e si prova a raggiungerli mettendosi costantemente alla prova, in una condizione di sforzo e sacrificio continui. Ecco perché per molte persone lavorare nei fine settimana è diventata la norma: ritengono che sia semplicemente necessario, altrimenti sentirebbero di non essersi impegnati abbastanza.
Lian Si dimostra la sua tesi riportando la sua esperienza personale, quella di ricercatore universitario che per i primi anni ha potuto dedicarsi a indagare le dinamiche della “tribù delle formiche” senza grandi pressioni da parte dell’università e quindi rifuggendo la dittatura delle scadenze. Chi è stato assunto dopo di lui, invece, ha dovuto sottostare alla politica feisheng jizou, 非升即走, in inglese nota come “up or out” e tipica dell’ambiente manageriale, che impone il raggiungimento di certi obiettivi pena l’esclusione dalla gara, dalla competizione o dal lavoro: nelle università si dava a ogni neoassunto due opportunità di essere promossi a professore associato entro 6 anni dall’assunzione. Non riuscire a coglierle significava essere obbligati ad andarsene allo scadere del sesto anno.
Oltre alla sua testimonianza diretta di professori a rischio di licenziamento perché considerati poco performanti, Lian racconta di un confronto illuminante che ha avuto con un suo collega assunto da Google, che gli racconta che dopo aver inviato nel fine settimana una mail di lavoro, il suo supervisore lo ha rimproverato per aver generato ansia tra i colleghi, invitandolo a imparare come bilanciare meglio riposo e obblighi lavorativi.
Nell’epoca dell’iper-professionalizzazione del lavoro è sempre più urgente una maggiore flessibilità. L’avvertimento dello studioso è che in Cina gli ingranaggi della ruota sono troppo stretti. Non c’è spazio per respirare, non c’è margine di errore. Se un piccolo collegamento si rompe, l’intero sistema crolla.
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.