La scorsa settimana sono stati diffusi alcuni dettagli sullo stato dei militari nipponici destinati a mettere ulteriormente in discussione il piano dell’amministrazione Abe. Oltre 50 suicidi nelle Forze di autodifesa giapponese. Una nuova tegola per Abe e il suo progetto di espansione del ruolo militare giapponese all’estero. Mentre il governo di Tokyo si prepara a portare in Parlamento una serie di provvedimenti per espandere il ruolo dell’esercito giapponese all’estero, la scorsa settimana sono stati diffusi alcuni dettagli sullo stato dei militari nipponici destinati a mettere ulteriormente in discussione il piano dell’amministrazione Abe.
Più di 50 soldati delle Forze di Autodifesa Nazionale (SDF) che hanno preso parte a missioni internazionali negli ultimi 15 anni si sono suicidati.
La conferma è arrivata durante una seduta della commissione parlamentare incaricata di discutere sulla legislazione in materia di difesa da presentare alle Camere nella sessione parlamentare corrente.
Quasi la metà di loro apparteneva alla marina.
Il Ministero della Difesa ha spiegato che è "difficile" collegare le morti al lavoro svolto dai militari — impegnati soprattutto in missioni di rifornimento e appoggio logistico alla marina USA nell’Oceano indiano — perché molti fattori contribuiscono alla decisione del singolo. Dal 2001 — anno dell’approvazione di una legge speciale antiterrorismo — olte 22 mila soldati giapponesi sono stati inviati in missione all’estero.
Ad ogni modo, la notizia diffusa dall’agenzia di stampa Kyodo è destinata a far crescere i dubbi che già esistono nell’opinione pubblica giapponese riguardo all’idea del governo Abe di allargare lo spettro delle operazioni delle SDF — la cui operatività, secondo la costituzione postbellica, è limitata ai confini nazionali — a "tutto il mondo" in nome del diritto all’autodifesa collettiva, nonché a sostegno incondizionato degli Stati Uniti.
Oltre che segnare una profonda cesura con la storia postbellica del Giappone, all’insegna di un pacifismo radicale e dello sviluppo di buoni rapporti con i vicini asiatici e i rappresentanti della comunità internazionale, dal punto di vista umano, un ampliamento del ruolo delle SDF significherebbe mettere in pericolo le vite di migliaia di militari, facendo loro affrontare situazioni di rischio a cui potrebbero non essere preparati. Fisicamente, o, come dimostra la vicenda dei 54 militari suicidi, psicologicamente.
A tali critiche, ha risposto il premier Shinzo Abe in persona all’inizio di questa settimana. Senza fare un passo indietro rispetto alle sue uscite precedenti, Abe ha sottolineato ancora una volta la necessità di garantire più libertà di manovra alle forze militari giapponesi per ridurre "i rischi" che incombono sulla nazione giapponese: che si chiamino Corea del Nord, integralismo islamico o Cina. "È una questione di scarsa lungimiranza: chi [dice che mettiamo a rischio le vite dei nostri militari] vede solo un albero e non riesce a vedere l’intera foresta", ha dichiarato Abe durante una riunione dei vertici del suo partito a inizio settimana.
Questa retorica del "rischio", tornata imperante nel dibattito politico dopo il viaggio di Abe negli Stati uniti, è strumentale non solo a far passare la legislatura relativa al rafforzamento della cooperazione bilaterale con l’alleato numero uno; ma lo è soprattutto in considerazione del progetto di riforma costituzionale con cui Abe che vorrebbe liberare definitivamente il paese dei vincoli sulla difesa imposti dall’articolo 9 della costituzione del 1947 — quello che sancisce la rinuncia eterna della guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali — una riforma su cui il governo deve chiamare il popolo al voto tramite referendum. Il termine ultimo stabilito dal governo Abe è il 2017.
Ieri in Parlamento Abe ha confermato che in caso di approvazione della nuova legislazione di difesa il Giappone non invierà truppe in altri paesi o nelle loro acque territoriali. Parole che suonano contraddittorie, dato che la serie di provvedimenti che il governo spera di far passare in Parlamento prevede infatti, tra le altre, una legge permanente che permette l’invio di truppe in missioni logistiche. Inoltre da luglio 2014 esiste una risoluzione del governo giapponese che permette un uso limitato del diritto all’autodifesa collettiva: in caso di attacco diretto o minaccia verso un paese "amico", Tokyo potrebbe inviare truppe a suo sostegno.
L’impianto narrativo messo in piedi da Shinzo Abe e dai suoi però non convince troppo i giapponesi. Un sondaggio del quotidiano Asahi shimbun, ha rilevato sempre questa settimana una diffusa opposizione alla svolta verso il "pacifismo proattivo" di Abe è ritenuto "inopportuno" da quasi il 70 per cento degli intervistati, che al tempo stesso giudicano l’esercizio dell’autodifesa collettiva un modo per entrare in guerra più facilmente con i Paesi vicini. Inoltre, si legge ancora nel sondaggio per molti giapponesi se la nuova legislazione difensiva sarà approvata, sarà più facile per il Giappone essere coinvolto nelle guerre Usa.
A fine 2012, in campagna elettorale, Abe aveva promesso che si sarebbe ripreso il Giappone. A qualche anno di distanza, dopo esserselo ripreso, l’ha già prestato a Washington.
[Scritto per East online; foto credit: scmp.com]