Il movimento Zaitokukai combatte contro l’integrazione in Giappone della comunità coreana. Molto simile all’avanzata delle destre nazionaliste in Europa, la crescita del razzismo in Giappone sfocia in azioni violente – spesso verbali – spacciate come esercizio della libertà d’espressione.
Non portano celtiche sui loro abiti, né camicie verdi. Più spesso, quando scendono in strada per farsi sentire, stringono tra le mani con ostentata fierezza la bandiera giapponese, nella versione minacciosa da guerra: quella con il disco rosso al centro da cui si dipartono i raggi.
Nelle foto non sembrano nemmeno pericolosi: del resto le grida scalmanate non fanno parte dell’armamentario culturale giapponese. Eppure, forzando un po’ i termini, rappresentano il corrispettivo delle nuove formazioni di destra che ultimamente dilagano e preoccupano l’Europa. Di chi parliamo? Dei militanti dello Zaitokukai, il movimento nazionalista che combatte l’integrazione dei coreani in Giappone.
Letteralmente Zaitokukai significa “cittadini contro i privilegi degli Zainichi”. Zainichi: così sono chiamati i coreani permanentemente residenti in Giappone. La comunità coreana è la più ampia: circa 600mila persone, spesso discendenti dei coreani portati a forza nel paese durante l’occupazione militare giapponese.
Lo Zaitokukai si è distinto per l’attivismo, non solo on line – il suo sito conterebbe circa 14.000 membri – ma anche tramite marce e manifestazioni, soprattutto nelle città di Tokyo e Osaka.
Lo scorso giugno, durante una di queste marce nel quartiere Shin-Okubo di Tokyo, dove risiede la nutrita comunità coreana, membri del gruppo sono venuti alle mani con alcuni oppositori. E non era la prima volta che scendevano in strada urlando slogan violenti e innalzando cartelli con scritto “Morte ai Coreani”. A causa di queste continue manifestazioni, nota Jeff Kingston del Japan Times, Shin-Okubo da distretto cosmopolita e regno della cultura pop coreana si è trasformato nel pozzo nero del nazionalismo, in cui molte attività commerciali hanno visto crollare il loro attivo.
Chi sono i membri dello Zaitokukai? Alcuni li hanno paragonati agli skinhead occidentali, ma secondo molti commentatori locali gli aderenti sarebbero più spesso giovani disperati, privi di chiari riferimenti ideologici, spesso senza occupazione, che incolpano gli stranieri delle loro sfortune. Inoltre, le tensioni territoriali tra Giappone e Corea avrebbero contribuito a peggiorare l’atmosfera.
In ottobre il Tribunale di Kyoto ha condannato i membri del gruppo a pagare 120mila dollari di danni per una serie di proteste a sfondo razzista tenute di fronte alla scuola elementare Kyoto Chosen Daiichi. Gli aderenti allo Zaitokukai non potranno avvicinarsi alla scuola se non rimanendo al di sotto di 200 metri di distanza dall’ingresso.
In tre diverse occasioni, infatti, tra il 2009 e il 2010, alcuni attivisti dello Zaitokukai hanno ostacolato le attività della scuola. La Kyoto Chosen Daiichi è una delle varie scuole etniche coreane che si trovano nel paese. Le posizioni dell’istituto – che appartiene alla rete della Chongryon, l’Associazione dei Coreani in Giappone – sono dichiaratamente pro-Pyongyang. Ciò non toglie che sempre di scuola si tratti.
A luglio il premier Abe ha deplorato le attività dello Zaitokukai, eppure, secondo alcuni osservatori, il governo giapponese avrebbe fino a oggi fatto molto poco per disincentivare sul serio le spinte xenofobe che sembrano ribollire sotto la placida superficie del Giappone.
Come ha notato il New York Times, la compensazione richiesta allo Zaitokukai costituisce una delle prime decisioni tese a contrastare le aggressioni contro le minoranze che vivono nel paese.
Hitoshi Hashizume, il giudice che ha presieduto la corte, ha spiegato che le azioni del gruppo, oltre ad aver procurato danni materiali e psicologici ai giovani studenti, sono da ritenersi illegali in quanto chiaramente discriminatorie dal punto di vista razziale. Dal canto suo, la difesa degli attivisti si è trincerata dietro a due motivazioni. Ovvero: la scuola si era appropriata senza autorizzazione di alcuni spazi pubblici per le sue attività, e le frasi aggressive rivolte all’istituto – "Cacciate i Coreani dal Giappone", "Figli di spie", "Scarafaggi, vermi, tornatevene a casa" e così via – rientravano nella sfera dell’esercizio della libertà di espressione.
Questo secondo argomento ha suscitato un vivace dibattito. Il Giappone, infatti, ha aderito alla Convenzione Internazionale per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, ma non prevede nel suo ordinamento giuridico nessuna norma idonea ad ostacolare l’esaltazione verbale di valori razzisti.
Lo spiega bene Teruhisa Muramatsu, un analista politico intervistato dall’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua (che dal lato suo sarà sicuramente stuzzicata dall’idea di denigrare l’antico rivale…): “In Giappone esiste una differenza tra atto criminale ispirato da odio e propaganda ispirata da odio. In sostanza, mentre un crimine ispirato da odio viene punito come tale, per quanto riguarda la sfera del discorso, ognuno è libero di dire ciò che crede senza alcuna limitazione”.
Secondo Muramatsu, il governo dovrebbe inserire tra le sue priorità una ridefinizione del concetto e dei limiti della libertà di espressione. Come spesso accade, laddove la politica non arriva, arrivano le sentenze: e così il Tribunale di Kyodo ha riempito un vuoto e contemporaneamente ha riaperto in modo ineludibile la questione.
Ora si vedrà se Abe terrà in considerazione il pronunciamento.
[Foto credit: japantimes.com]
* Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello Yomiuri Shimbun, il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).