Giappone – No country for women

In by Simone

Il Giappone, nonostante la nomea di paese all’avanguardia, sembra ancora arrancare nella parità dei sessi, specie in ambito lavorativo. Il gender gap è un problema concreto per le donne giapponesi, relegate dal maschilismo dominante ad un ruolo materno e subordinato.
E dire che la teoria ci sarebbe. Lo aveva detto il premier Yoshihiko Noda, in uno dei suoi primi discorsi programmatici: "Riguardo alle prospettive di declino della nostra forza lavoro, è nostro dovere migliorare il tasso di occupazione di giovani, donne, anziani e disabili. Dobbiamo progredire nella realizzazione di una società in cui tutti siano partecipi, in cui chiunque abbia il desiderio di lavorare si trovi nella condizione di farlo".

Il Gender Gap Report del 2010 colloca il Giappone al 94mo posto per disparità fra i generi, subito dopo il Belize e prima delle Mauritius, e ben al di sotto dell’Italia (74mo posto) che, si sa, non brilla per uguaglianza tra uomo e donna. Per non parlare poi delle posizioni dirigenziali, detenute da soltanto il 10% delle donne.

Nel giugno di quest’anno un documento del precedente governo invitava a prendere in considerazione le quote rosa per accrescere la presenza femminile nella politica, mentre già un anno fa la Goldman Sachs ammoniva in un report che le donne giapponesi costituiscono un asset ampiamente sottoutilizzato: "Se il Giappone riducesse lo scarto occupazionale tra i generi la forza lavoro potrebbe aumentare di 8,2 milioni di persone e il Pil potrebbe accrescersi del 15% circa".

Eppure il recente studio del think tank americano Center for Work-Life Policy evidenzia la persistenza di alcuni fenomeni preoccupanti. Secondo il rapporto “Fuori e dentro dal lavoro in Giappone: mantenere il talento della forza lavoro femminile sulla strada del successo”, il 74% delle donne laureate abbandona volontariamente il lavoro per un periodo di 6 mesi o anche più.
Inoltre, tra coloro che provano successivamente a ottenere una nuova occupazione, solo il 43% (paragonato al 73% in America e al 68% in Germania fa un certo effetto) ci riesce.

Stiamo parlando di donne qualificate e motivate rispetto al lavoro: il loro abbandono non configura soltanto una questione di equità sociale, ma anche una perdita di talenti e capacità per un Paese che ne ha disperato bisogno.

Non è solo la dimensione familiare – e il ruolo tradizionalmente assegnato – a spingere le donne fuori dal lavoro, quanto piuttosto la mancanza di una prospettiva professionale e la rigidità di un sistema che non concepisce alcun adattamento alle esigenze femminili.

In epoca Meiji, cioè a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, alle donne giapponesi cominciò a essere associata l’espressione ryōsaikenbo, traducibile come “moglie devota e madre istruita”: ovvero, una buona moglie aveva l’obbligo di obbedire al marito e di prendersi cura dei figli. In quest’ultimo aspetto rientrava anche il seguire l’educazione della prole.

Le cose sono cambiate, ovviamente, ma uno strascico di quella forma mentis sembra persistere: basta pensare alle schiere di madri ossessionate dalla competizione per la preparazione dei bento (i cestini pranzo) o dall’ansia con cui affrontano gli esami di ammissione dei figli ai vari livelli scolastici.

Oppure al residuale pregiudizio che le colloca in ambiti professionali senza sbocchi, in cui l’antica funzione di “moglie devota” può estrinsecarsi in mansioni di supporto ai manager come segretarie, assistenti: le cosiddette office ladies.

Soprattutto, sottolinea ancora lo studio, la maggior parte delle donne intervistate non avrebbe lasciato il lavoro se fosse stato loro concesso un trattamento più flessibile tale da conciliare vita familiare e autorealizzazione. Come dice al Wall Street Journal Sylvia Hewlett, una degli autori del rapporto: "Le donne giapponesi non hanno resistenze rispetto alla giornata lavorativa di 12 ore, ma perché mai non è possibile per loro svolgere certe mansioni tra le 9 e le 11 di sera, quando hanno risolto le incombenze dei figli, anziché dover affrontare lo sguardo di disappunto dei colleghi che pensano che uscire prima delle 7.30 di sera sia un tradimento verso l’ufficio?"

Qualche azienda ha aperto gli occhi sul problema. Come la Shiseido, in cui lavora come vice-presidente Kimie Iwata, che ha raggiunto dopo anni di lotte e sacrifici il ruolo di manager e che è da sempre in prima linea nella battaglia per l’uguaglianza di genere.

Intervistata dalla Associated Press, racconta qualche vicenda autobiografica. Come quando, dopo l’università a Tokyo e un annonegli Stati Uniti, tornò in Giappone per iniziare la sua carriera e si scontrò con la brutale realtà del lavoro: semplicemente non era previsto che le donne facessero carriera.

Nel 1971 il Ministero del Lavoro offriva un posto di lavoro per una donna: lei fece il concorso ed entrò. Nel tempo scalò le gerarchie, propose e vide approvare la legislazione contro la discriminazione delle donne e crebbe due figlie. Finché, nel 2003, passò al settore privato con la Shiseido.

Da allora a oggi, le donne manager all’interno della Shiseido sono sensibilmente aumentate, l’azienda si è dotata di un asilo e ha introdotto sistemi di congedo parentale, incoraggiando anche i padri. Ora Kimie Iwata vuole colpire ancora più in profondità, modificando la mentalità – troppo collegata alle regole dettate dagli uomini: meno straordinari (praticamente una piaga inestirpabile e normalizzata nelle aziende giapponesi) e nuovi criteri di valutazione, non più legati alla sola anzianità.

Un esempio che si spera nel tempo possa produrre spirito di emulazione presso le altre aziende giapponesi.
Ma quando, queste idee, verranno dagli uomini e non solo dalle (poche) donne manager?

[Foto credit: japantoday.com]

* Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello «Yomiuri Shimbun», il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).