Domenica scorsa alla manifestazione di solidarietà in seguito agli attacchi di Parigi a Shibuya, Tokyo, c’era anche un giovane sui 25 anni. Tra la folla di giapponesi ed expat, teneva in mano un foglio di carta e una scritta in giapponese: Watashi wa musurimu desu. Tero de wa arimasen. “Sono musulmano, non terrorista”. Lo scatto è stato postato su Facebook da un’amica di Tokyo. Nel post si legge la storia del giovane.
Dopo gli attentati di Parigi e aver visto sul social network molte persone cambiare la propria foto profilo con il tricolore francese, ha pensato di dover scendere in piazza e portare il suo messaggio all’attenzione dei giapponesi. “Chi compie attentati non è musulmano”.
Dopo pochi minuti un poliziotto in borghese si avvicina e chiede i documenti al giovane con il cartello. “Non ho niente da nascondere”, dice lui mentre fornisce i suoi dati all’agente. Forse impaurito, però, ripiega il cartello e lo infila in una tasca della giacca.
Foto credit: Kanako Baba
Il messaggio è comunque lanciato. Come si legge anche sulla home page del Tokyo Camii and Turkish Culture Center, il più grande luogo di incontro e preghiera dei musulmani nella capitale dell’Arcipelago, “Il terrorismo non ha religione”.
Dopo venerdì 13 novembre anche in Giappone si sono tenute manifestazioni di solidarietà e cerimonie pubbliche; la Sky Tree, la torre più alta di Tokyo, è stata illuminata con il tricolore francese. Intanto, dal G20 di Antalya, in Turchia, il primo ministro giapponese Shinzo Abe prometteva impegno a fianco della Francia e dei suoi alleati nella lotta al gruppo dello Stato islamico.
Dopo Parigi, l’attenzione delle autorità giapponesi nei confronti della minaccia terroristica dell’Is potrebbe essere maggiore di quanto sia stata finora.
A febbraio di quest’anno, dopo l’uccisione di due ostaggi giapponesi in mano ai militanti in Siria — il giornalista freelance Kenji Goto e il contractor militare Haruna Yukawa — l’allerta — ma soprattutto la paura — nei confronti del gruppo islamista è aumentata. Anche a Tokyo, a più di diecimila chilometri di distanza dalla Siria.
Dopo la legge sui segreti specifici del 2014 e la riforma dell’esercito dello scorso settembre, ora il governo di Tokyo potrebbe valutare l’ipotesi di istituire una legge sulla “cospirazione”, che permetterebbe alle forze dell’ordine di trattenere chiunque sia intercettato a parlare di un possibile crimine. Una misura di carattere repressivo bocciata tre volte in Parlamento nel 2003 ma che oggi con la scusa della lotta al terrorismo potrebbe avere il necessario supporto politico per essere approvata.
Ma le conseguenze più negative potrebbero esserci sulla comunità islamica locale, tra le 60 e le 100mila persone: indonesiani, pakistani, bangladesi e iraniani, arrivati negli anni ’80 sulla scia della bolla economica su tutti; ma anche malaysiani, singalesi, libanesi e giapponesi convertiti all’Islam in seguito al matrimonio.
In un paese dove oltre il 60 per cento della popolazione secondo una recente ricerca internazionale si dichiara atea o non religiosa, c’è una diffusa tolleranza nei confronti dell’Islam. Diversi atenei sul suolo dell’arcipelago hanno deciso di aprire mense halal per gli studenti di fede musulmana — sempre più numerosi, vista la crescita dei programmi di scambi internazionali presso le università nipponiche.
Ma la minaccia del terrorismo di matrice religiosa, amplificata dalla politica e dalle narrazioni parziali e incomplete dei media nazionali, rischia di inasprire il clima sociale. E non sarebbe la prima volta. Dopo le uccisioni di Goto e Yukawa alcune associazioni di musulmani nel paese arcipelago avevano ricevuto minacce contro i loro membri.
Ora, dice qualcuno, servono più informazione e più educazione. O la paura e il sospetto potrebbero avere il sopravvento.
[Scritto per East online; foto credit: japantimes.co.jp]