Giappone – Il Paese decresce, l’e-commerce cresce

In by Gabriele Battaglia

In un paese che decresce — economicamente e demograficamente — c’è un settore economico che negli ultimi anni ha avuto un’espansione a ritmi serrati e, seppur moderatamente, continua a crescere. L’e-commerce, e in generale il settore dei servizi online, in Giappone è un campo di scontro tra i più grandi «player» del settore. Da una parte i gruppi locali, a capo dei quali siedono alcuni degli uomini più ricchi del paese arcipelago, come Rakuten, dai primi anni 2000 leader assoluto del mercato giapponese; dall’altra multinazionali come Amazon, in costante ricerca di nuovi mercati e possibilità di espansione. Una delle chiavi del successo dell’e-commerce nel paese arcipelago è l’alto tasso di connettività: su una popolazione che conta poco più di 127 milioni di persone, oltre 109 milioni hanno accesso alla Rete. Infatti, il Giappone guida la classifica mondiale per transazioni eseguite su smartphone o tablet. Segue, a breve distanza, la Corea del Sud.
In generale, oggi, quello giapponese è il terzo mercato per gli acquisti online più grande del mondo, con un volume di vendite totale che si aggira intorno ai 120 miliardi di dollari e una crescita del 7 per cento all’anno — moderata, a dire il vero, se paragonata alla crescita del 51 per cento vissuta dal settore in Cina. Rakuten, leader nel mercato con una fetta di mercato del 25 per cento, il doppio rispetto alla prima competitor Amazon.

La crescita dell’e-commerce è il rovescio della medaglia della recessione economica del Sol Levante e del rapido declino demografico.
Dal crollo di Lehman Brothers nel 2008, le prospettive di crescita nel settore dell’e-commerce sono diventate più allettanti per le aziende nipponiche. Secondo alcune indagini di mercato, i giapponesi escono di meno e si rivolgono sempre più alla Rete per trovare affari. A sette anni di distanza, con gli economisti prevedono un terzo trimestre in negativo nonostante gli sforzi di governo e banca centrale, le difficoltà economiche di Tokyo sembrano ormai una costante. E ciò potrebbe spingere i consumatori sempre più verso Internet.

La parabola ascendente del primo gruppo giapponese di e-commerce, Rakuten è un buon esempio del paradosso della crescita in tempo di crisi generalizzata. Fondata nel 1997, anno della crisi finanziaria asiatica, l’azienda è diventata negli anni la prima piazza digitale per acquisti e vendite di prodotti online in Giappone e una delle più grandi del mondo. La crescita di Rakuten si è fatta poi più evidente a partire dal 2011, anno del triplo disastro del Nordest del Giappone — terremoto, tsunami e incidente nucleare di Fukushima — che ha approfondito le difficoltà economiche del paese arcipelago. Ciononostante, le vendite su Rakuten hanno toccato i 2 mila miliardi di yen (circa 15 miliardi di euro) con un guadagno per l’azienda di 100 miliardi di yen (750 milioni di euro). Risultati propiziati dal consolidamento della propria posizione di leader in patria con la diversificazione dell’offerta — Rakuten ha anche un sito di viaggi, offre carte di credito e servizi finanziari — e le iniziative di fidelizzazione della clientela — ogni operazione fatta sui siti del gruppo permette all’utente registrato di accumulare punti e di ricevere sconti sia online sia in negozi e supermercati; e dall’espansione globale del gruppo di Tokyo, che oggi possiede Kobo, un lettore di e-book concorrente a Kindle, una partecipazione in app come Pinterest e Viber, app di messaggistica concorrente di WhatsApp. E ora Hiroshi Mikitani, ad del gruppo e terzo uomo più ricco del Giappone, punta a portare Rakuten al primo posto nel mondo per i servizi online.

Anche le fasce più anziane della popolazione, in particolare gli over 65, sono coinvolte nel boom dell’e-commerce. Statistiche diffuse dal Ministero degli interni di Tokyo a fine 2014 danno idea della crescita dell’e-commerce dal 2002: nel 2013 circa il 10 per cento delle famiglie con un componente over-65 (pari a circa 2 milioni di famiglie) aveva fatto acquisti online. Le possibilità di crescita di questo tipo di clientela sono alte: secondo le statistiche del governo di Tokyo nel 2014 il numero di giapponesi è crollato di 273 mila individui rispetto all’anno precedente e le stime sono di un calo di 40 milioni di individui entro il 2060. «La maggior parte degli anziani — concludeva Stephen Golant della University of Florida a commento dei risultati di una ricerca di mercato della AT Kearney— sono consumatori motivati che hanno bisogno di essere convinti».

Un mercato di questo genere fa gola anche ad Amazon, leader mondiale dell’e-commerce che però in Giappone deve inseguire. La sua fetta di mercato è infatti la metà di quella di Rakuten, che controlla oltre il 25 per cento dell’e-commerce giapponese. Tuttavia, secondo i dati di statista.com, i siti legati ad Amazon Japan, la filiale nipponica del gruppo di Jeff Bezos, raccoglierebbero oltre 31 milioni di accessi individuali ogni mese, più di Rakuten. Anche Amazon Japan, partito come sito di compravendita di libri, ha saputo espandere la propria offerta: da vestiti e accessori ai casalinghi, dagli articoli sportivi e da outdoor alle automobili. Quest’anno Amazon Japan ha anche lanciato il proprio servizio di pagamento e aperto un vero e proprio supermercato su cui acquistare alimentari e alcolici a prezzi da bancone. Così facendo, non solo Amazon prova a insediare il primato di Rakuten, ma anche quello del più grande gruppo di supermercati giapponese, la Seven and I Holdings.

«Amazon in Giappone sta letteralmente “massacrando” tutti in termini di crescita anno per anno», spiega al manifesto un impiegato nel settore e-commerce in Giappone, che ha scelto di restare anonimo. «Amazon rimane, anche per i suoi concorrenti, il modello di e-commerce bello, chiaro, con la migliore user experience».

Come dimostrato però da un lungo reportage del New York Times sulle condizioni di lavoro in Amazon negli Stati Uniti di quest’estate, il modello Amazon ha un lato oscuro: quello che il Guardian questa estate ha chiamato il “regime Amazon”. In particolare, in Giappone è finito sotto esame il PIP, o Performance Improvement Plan, uno speciale programma di tre mesi in cui i dipendenti che non presentano risultati soddisfacenti in base agli obiettivi stabiliti dalla dirigenza vengono inseriti prima di essere licenziati o vedersi ridotto lo stipendio. In un settore in continuo cambiamento come l’e-commerce un’attenzione maggiore alle performance dei dipendenti è indispensabile. Eppure alcuni lavoratori di Amazon Japan hanno così deciso che la situazione non è più sostenibile e hanno dato vita a una rappresentanza sindacale sotto l’ala della Tokyo Kanri Union — un gruppo sindacale legato al settore dei servizi. Al sindacato, ha spiegato il segretario Takeshi Suzuki lo scorso 4 novembre, sono giunte almeno venti denunce di pressioni al licenziamento e abusi di potere. «Vogliamo la fine del PIP», ha spiegato Suzuki in conferenza stampa. «E un ambiente di lavoro in cui poter continuare a lavorare senza preoccupazioni».

[Scritto per il manifesto; foto credit: japantimes.com]