Tra una citazione di Carol King e un ricordo nostalgico della sua esperienza da studente in California, Shinzo Abe è riuscito a strappare un’ovazione al Congresso degli Stati Uniti d’America, a conclusione di un bilancio positivo per la sua visita di una settimana negli Usa. Ma la visione della storia del premier giapponese è sembrata ancora una volta arbitraria. Giappone e Usa saranno ancora più uniti di prima. L’accordo sulla revisione delle linee guida della cooperazione difensiva tra i due paesi mette in una botte di ferro l’alleanza tra Washington e Tokyo.
La prima si impegna a continuare a difendere l’alleato in caso di attacchi provenienti da qualche inquieto vicino (Cina e Corea del Nord in cima alla lista), mentre in cambio la seconda promette di essere un fedele scudiero nelle prossime campagne militari (Medio Oriente? Iran?). Secondo le nuove linee guida, infatti, l’impegno nippo-americano non sarà più infatti limitato all’Asia-Pacifico come da 70 anni a questa parte: il “mondo” sarà il limite.
Le nuove linee guida sono il più importante endorsement ricevuto dall’attuale amministrazione giapponese che non ha mai nascosto di voler riformare l’articolo 9 della costituzione postbellica, quello che sancisce l’eterna rinuncia del Paese del Sol Levante alla guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali.
Al suo ritorno in patria è probabile che il governo si metterà subito al lavoro con per sottoporre un disegno di legge alle Camere e arrivare al provvedimento finale entro la fine di quest’anno. Per la riforma costituzionale, invece, ci vorrà ancora un po’ di tempo: secondo quanto rivelato questa settimana da Reuters, citando un anonimo funzionario del governo giapponese, l’idea è quella di fare il “grande passo”, per cui oltre che a una maggioranza dei 2/3 in entrambe le Camere è necessario un referendum popolare, nel 2018.
La riforma della costituzione pacifista è quanto di più desiderato dall’attuale elite del partito liberaldemocratico, il partito conservatore che in Giappone ha governato quasi ininterrottamente dal primo dopoguerra a oggi, che secondo qualche studioso di politica giapponese, come Koichi Nakano della Sophia University di Tokyo, è sempre più spostata a “destra”. Non solo per quanto riguarda l’approccio dell’attuale amministrazione alla politica estera; ma soprattutto per la posizione del governo di Tokyo su Storia e libertà di espressione.
Il viaggio negli States del primo ministro nipponico si è concluso con un finale d’eccezione: comunicando il proprio “profondo rimorso” per le vittime americane della Seconda guerra mondiale, Abe è diventato il primo capo di stato giapponese a strappare una standing ovation al Congresso Usa dal dopoguerra.
Parole che hanno dimostrato però quanto per Abe esistano vittime di serie A e vittime di serie B. Le stesse parole non si sono sentite a Giacarta al summit asiatico-africano e non sembra ci sia l’intenzione di concederle ai vicini cinesi e coreani. «Può aspettare che siamo morte tutte – ha detto una ex comfort woman presente al discorso di Abe – ma ciò non alleggerirà il peso dei crimini di guerra giapponesi».
D’altra parte, mentre il primo ministro era impegnato nel suo tour diplomatico, in patria ha fatto discutere un articolo di Carsten Germis, da pochi giorni ex corrispondente del Frankfurter Allgemeine Zeitung. «Il paese che lascio è molto diverso da quello in cui sono arrivato a gennaio 2010», scrive Germis, che racconta nel suo pezzo dell’atteggiamento dell’attuale amministrazione giapponese nei confronti di chi “osa” fare critiche.
«Dopo la pubblicazione di un articolo in cui criticavo il revisionismo storico dell’amministrazione Abe il capo-redattore della politica estera del mio giornale ha ricevuto la visita del console generale del Giappone a Francoforte che trasmetteva “obiezioni da Tokyo”. I cinesi, spiegava il console, avevano usato il pezzo per fare propaganda antigiapponese».
Dopo la nomina di una dirigenza “amica” alla tv nazionale, la NHK, e una campagna di discreditamento del secondo giornale nazionale, l’Asahi Shimbun, per la pubblicazione di alcuni reportage sulle “comfort women” bollati come falsi dall’attuale goveno, Abe è riuscito stringere ulteriormente la presa sugli organi di stampa nazionali e, grazie a una schiera di solleciti funzionari, anche dei corrispondenti esteri “ostili”.
Questi non sono più i benvenuti in quello che Jeff Kingston, direttore del dipartimento di Studi asiatici della Temple University di Tokyo, il “Paese delle Meraviglie del 21esimo secolo”. Quel “Nuovo Giappone” – altro concetto chiave del discorso di Abe al Congresso – che dalla scorsa settimana piace tanto agli americani.
[Scritto per East online; foto credit: usatoday.com]