Giappone – Da Megumi a Kenji: vittime ideali e non

In by Gabriele Battaglia

Cos’hanno in comune il giornalista Kenji Goto, ucciso in Siria mentre era prigioniero di militanti dell’Isis, e Megumi Yokota, una ragazza tredicenne rapita nel 1978 da agenti nordcoreani e di cui da allora non si hanno più tracce? E cosa invece differenzia questi personaggi da altri ostaggi che invece di essere santificati in patria sono stati criticati? Ulv Hanssen ci racconta pescando nella storia recente del Giappone come viene "creata" una vittima. Il brutale omicidio dei due ostaggi giapponesi in mano all’Isis, Kenji Goto e Haruna Yukawa, ha comprensibilmente catturato l’attenzione dei giapponesi. Le opinioni su di loro andavano dal compatimento al biasimo. A dire il vero, sembrava che il pubblico giapponese fosse più incline a considerare Goto, più che Yukawa, come vera vittima del caso. Tali sentimenti sono importanti perché richiamano una domanda che riguarda qualsiasi crimine: perché alcune persone vengono investite del ruolo di vittime e altre no?

Sia Yukawa che Goto hanno patito della stessa tragica sorte, ma le reazioni in patria alla crisi dei due ostaggi hanno dimostrato che una sorte simile non garantisce un simile trattamento da vittima. Goto è stato descritto come un uomo coraggioso e generoso in missione come giornalista per raccontare la verità sulla guerra in Siria. Per alcuni giorni, la campagna online “I am Kenji” ha spopolato in Rete. Pochi, o zero, dubbi sul legittimo ruolo di Goto come vittima.

Yukawa, invece, è stato visto con maggiore scetticismo, per non dire con disprezzo. Yukawa è stato descritto dai media giapponesi come un lupo solitario confuso, desideroso di morire, andato in Siria come contractor militare per dare un senso alla propria vita. Anche se in pochi lo dicono ad alta voce, molti giapponesi probabilmente hanno inteso che Yukawa si era preso dei rischi inopportuni e che, in qualche modo, se l’”era andata a cercare”. Manco a dirlo, nessuno desiderava essere “Haruna”.
 
A Yukawa il ruolo di vittima è stato negato. La cosa ha in verità un pessimo precedente. Nell’aprile 2004, cinque cittadini giapponesi che erano stati rapiti in Iraq mentre lavoravano per i media e organizzazioni di volontariato, vennero rilasciati e rimpatriati dopo essere stati sotto minaccia di essere bruciati vivi dai loro carcerieri islamisti. Tuttavia, al loro ritorno furono accolti da manifestanti arrabbiati all’aeroporto con tanto di cartelli. Uno recitava: “Avete avuto ciò che meritavate!”. Il governo giapponese chiese addirittura ai cinque di pagare 6mila dollari di biglietto aereo. La violenza dell’attacco alle vittime ha sottolineato che, andando avventurandosi in Iraq a dispetto degli avvertimenti del governo, le vittime avevano fallito nell’assumersi le proprie responsabilità.

Non sorprende che siano le circostanze – al di là di quanto compiuto dai rapitori – a determinare l’assegnazione o meno di un ruolo da vittima. Ma cosa si può dire di più preciso su di esse?

Per rispondere a questa domanda, è utile ricordare il caso di Megumi Yokota, probabilmente una delle più famose e indiscusse vittime della storia giapponese.

Yokota ha guadagnato la propria fama nazionale e internazionale nel 2002 quando l’allora dittatore nordcoreano Kim Jong-il ammise a una delegazione incaricata dal primo ministro giapponese che Yokota era una dei tredici cittadini giapponesi che la Corea del Nord aveva rapito negli anni ’70 e ’80. Megumi Yokota, o solo Megumi — come spesso viene chiamata in un Paese solitamente molto formale — aveva solo 13 anni quando fu rapita in una località sulla costa di Niigata nel 1978. Quel rapimento era finalizzato a insegnare alle spie nordcoreane come “diventare giapponesi” in modo che si potessero infiltrare in Giappone senza essere riconosciute. inoltre la Corea del Nord affermò che lei si fosse suicidata nel 1994 — informazione che il governo giapponese nega tutt’oggi.

La tragica storia di Megumi ha suscitato passione nel pubblico giapponese, tanto da farla diventare testimonial delle diverse campagne del governo di Tokyo mirate alla soluzione del caso diventato celebre come “questione dei rapimenti in Corea del Nord”. Grande popolarità hanno avuto poi manga e anime che facevano riferimento al suo nome e alla sua vita; Noel Paul Stookey della folk-band americana Peter Paul and Mary ha scritto la ballata “Canzone per Megumi” e l’ha poi eseguita nell’ufficio del primo ministro giapponese. Infine, i genitori di Megumi sono diventati figure di spicco dell’Associazione delle famiglie delle vittime rapite dalla Corea del Nord.

Ma perché Megumi è diventato personaggio simbolo delle campagne sulla questione dei rapimenti? Perché non gli altri rapiti?

La risposta è una sola: Megumi era una "vittima ideale".

Il criminologo Nils Christie ha scritto che in gran parte dei casi criminali la vittima non è completamente senza colpa e che il colpevole non completamente tale. Ad ogni modo, più ci si avvicina agli estermi, più facilmente si apprende che la parte danneggiata non riceverà mai “il completo e legittimo status di vittima”. È ciò che Christie chiama la “vittima ideale”per cui ha individuato cinque criteri. Come vedremo, i criteri di Christie sono perfettamente rintracciabili nella storia di Megumi Yokota.

Innanzitutto “la vittima è debole. Persone malate, vecchie o molto giovani sono particolarmente adatte a essere vittime ideali”. — Quando venne rapita Megumi aveva 13 anni, la più giovane di tutti i rapiti; poi “La vittima stava portando avanti un progetto rispettabile” — Megumi stava tornando a casa dall’allenamento di badminton; “Si trovava dove non poteva essere accusata di niente” — Megumi stava percorrendo la strada di sempre; inoltre “L’aggressore era grosso e cattivo” — i rapitori erano spie nordcoreane adulte, entrate illegalmente in Giappone con una nave; e infine: “L’aggressore era sconosciuto e con nessuna relazione personale con la vittima” — Vedi sopra.

Megumi è l’incarnazione vivente della vittima ideale. Il suo potere simbolico ha indubbiamente contribuito a fare della questione dei rapimenti in Corea del Nord una questione d’interesse nel pubblico giapponese più delle questioni più convenzionalmente legate alla sicurezza nazionale — come ad esempio il programma nucleare di Pyongyang.

Per tornare al caso delle vittime dell’ISIS Kenji Goto e Haruna Yukawa, si può dire che ciò che li divide nella sostanza è la seconda condizione: “portare avanti un progetto rispettabile”. È difficile trovare una macchia in un giornalista che va in Siria per raccontare della sofferenza di persone comuni durante quella che al momento è la peggiore crisi umanitaria sul pianeta. Gettarsi in quella crisi da contractor militare, invece, non è identificabile come un “progetto rispettabile” in Giappone dove dalla fine della Seconda guerra mondiale si è affermato un forte sentimento anti-militarista.

È ancora più difficile dire perché Goto è stato percepito più favorevolmente rispetto agli ostaggi in Iraq del 2004 che stavano probabilmente portando avanti allo stesso modo “progetti rispettabili”. Forse tutto si riduce al fatto che Goto è morto mentre gli altri sono sopravvissuti. In ogni caso, è anche possibile che la legittima “vittimizzazione” di Goto fosse in un certo senso assicurata: la sua morte è stata annunciata subito in seguito alla sparatoria alla redazione di Charlie Hebdo, un caso che ha provocato una celebrazione della libertà di espressione senza precedenti. E Goto era, in fin dei conti, un simbolo di quella libertà.

Ovviamente non ci sono leggi assolute sul comportamento umano, ma sembra che sia una correlazione generale tra lo status di vittima e i punti elencati da Christie. Ciò deriva probabilmente dalla nostra disposizione umana a semplificare un mondo estremamente complesso. Cerchiamo costantemente la semplicità e questa spesso la troviamo in opposizioni di facile comprensione: buono/cattivo, innocente/colpevole. Ma per giudicare innocenza e colpa, abbiamo bisogno di criteri e quelli forniti da Christie più di tutti si avvicinano a dire qualcosa di generale riguardo la costruzione del ruolo di vittima.

È importante, comunque, non permettere che l’ “imperfezione” della vittima offuschi o giustifichi le azioni dell’aggressore, come in qualche caso si è fatto in Giappone. Decapitazioni e rapimenti non sono mai meritati.

Articolo originale pubblicato su Asia Portal, ripreso e tradotto dietro consenso dell’autore.

*Ulv Hanssen è dottorando presso la Graduate School of East Asian Studies alla Freie Universität di Berlino