Giappone – Chi sono gli otaku

In by Simone

Appassionati sfiorando l’ossessione, gli otaku sono un fenomeno pop molto comune in Giappone. Collezionisti estremi e soggetti maniacali talvolta separati dal mondo reale, per spiegare gli otaku si è scomodata la letteratura e l’antropologia, con un ricercatore americano particolarmente coinvolto.
"Mania: nel linguaggio corrente, entusiasmo smodato, smania; tendenza, predilezione fanatica; abitudine bizzarra e incorreggibile, spesso ridicola": così recita il dizionario Garzanti.

Ed è questa forse la maniera più semplice per avvicinarsi alla nozione di otaku, che definisce un fenomeno giapponese ancora poco conosciuto in Italia.

Gli otaku sono delle persone letteralmente ossessionate da alcune manifestazioni della cultura pop, generalmente manga, anime o videogiochi. Collezionisti indefessi: maniacali, appunto.

Nel nostro Paese mediamente solo gli esperti di cose giapponesi (non necessariamente otaku) o chi si occupa di fumetti e cartoni animati conoscono il significato del termine, né la produzione editoriale si è attardata specificamente sul tema (se si esclude Generazione Otaku di Azuma Hiroki, pubblicato da Jaca Book o il romanzo Train Man, di Nakano Hitori, pubblicato nel 2007 da Isbn e che ha per protagonista proprio un otaku).

Altrove, invece, ci sono occidentali che studiano gli otaku, talvolta persino abbracciandone entusiasticamente lo spirito. È il caso dell’americano Patrick W. Galbraith, antropologo e ricercatore, che recentemente ha pubblicato il libro Otaku spaces.

Galbraith è al contempo soggetto e oggetto della propria indagine; si autodefinisce otaku – fatto che gli ha anche attirato giudizi negativi, vista la bassissima distanza critica che può riservare ai fenomeni di cui si occupa.

D’altra parte, però, un antropologo non può che immergersi nella realtà da studiare, si tratti dei balinesi in trance o dei costumi ben più consumistici di una società raffinata, artificiale e artefatta come quella giapponese.

Ormai da diversi anni Galbraith tenta dunque di “tradurre” questa cultura ai profani, cercando di normalizzare l’immagine di individui sui cui pesa ancora lo stigma sociale ereditato da macabre vicende del passato.

Procediamo con ordine.
Il termine otaku significava originariamente “casa tua” e veniva usato in origine come pronome onorifico di seconda persona. È negli anni Sessanta che acquista una nuova valenza: gli appassionati di fantascienza lo utilizzano per i possessori di libri rari, da collezionisti.

Ma è successivamente che la parola assume una connotazione del tutto differente. Quando per esempio la scrittrice di science fiction Arai la utilizza in un saggio: da lì potrebbe essere partita l’emulazione dei fan e il totale stravolgimento di senso rispetto agli esordi.

Come detto, non è un vocabolo neutro in giapponese: indica qualcuno separato dal mondo reale, proiettato in un universo di fantasie e di fissazioni monotematiche, spesso con connotazioni di devianza sessuale.

Ancora oggi è difficile smontare l’immaginario negativo che circonda gli otaku in Giappone e che è strettamente intrecciato ai terribili fatti di cronaca che scioccarono la società giapponese a fine anni Ottanta.

In quel periodo, infatti, furono scoperti i crimini del serial killer Tsutomu Miyazaki che uccise e abusò di quattro minorenni. Nella sua casa fu trovata un’enorme collezione di film horror, di anime, nonché di frammenti di video e immagini delle sue vittime. Da qui alla psicosi verso gli otaku il passo fu breve. Il giornalista Akio Nakamori si riferì al killer come a un otaku e l’etichetta divenne definitiva.

Galbraith cerca di smontare tale pregiudizio – che comunque è già oggi più fiacco – affidandosi agli otaku stessi.
Otaku spaces è il racconto delle vite e delle passioni di questi individui, senza filtri e senza preconcetti. Sono venti ritratti accompagnati dalle rispettive interviste. Attraverso le foto di Androniki Christodoulou, il volume è un campionario iconografico delle diverse tipologie di otaku.

Oltre agli appassionati di manga e anime, ci sono anche i cultori di oggetti militari o di informatica – il corrispettivo di quelli che, in occidente, chiameremmo geek.

Per Galbraith il termine otaku è scivoloso e arbitrario: come dimostrano le interviste del suo libro, ogni storia e ogni passione è a sé, ha le sue regole, i suoi ritmi, sfugge alle categorizzazioni.

Per esempio il libro si apre con il ritratto di due individui che normalmente non vengono associati a questo tipo di sottocultura. Uno è un cinquantenne: apparteneva alla prima ondata degli otaku. La sua vita è tutt’altro che ritirata. È sposato, ha viaggiato molto, non vive di vagheggiamenti astratti: semplicemente ama collezionare vecchi calcolatori o insoliti strumenti musicali.

L’altro, invece, colleziona tutto quello che può rientrare nella definizione di armamentario underground: ovvero oggetti che provengono dalle gang, dalle sette religiose, dagli estremisti politici o dalla yakuza.
Ci sono anche le donne, a riprova del fatto che gli otaku non sono tutti uomini.

Intervistato qualche anno fa dal blogger Daniel Mercedes, Galbraith raccontava le trasformazioni del quartiere di Akihabara, il luogo più innovativo al mondo in fatto di tecnologie e nuove tendenze, nonché una sorta di laboratorio per le sub-culture: insomma il posto adatto per diventare un santuario per gli otaku.

Galbraith per anni si è aggirato per Akihabara vestito da Goku, protagonista della serie Dragon Ball, accompagnando gli stranieri lungo un suggestivo tour del luogo: “Volevo che Akihabara e il fenomeno degli otaku fossero letti all’interno del giusto contesto sociale, economico e politico”, spiega.

Forse con un approccio entusiastico che può urtare le sensibilità accademiche, ma di certo Galbraith, con questo libro e con il precedente Otaku Encyclopedia, ha il merito di aver ragionato seriamente su un movimento che non è solo folklore.

Tutt’altro: un’indagine sui consumi citata nel libro rivela che gli otaku spendono 2,5 miliardi all’anno per i loro hobby. Insomma, non proprio noccioline!

[Foto credit: theverge.com]

* Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello "Yomiuri Shimbun", il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).