Game of Thrones in Tibet, ecco come Pechino vuole sostituire il Dalai Lama

In by Gabriele Battaglia

Mentre il Dalai Lama ha ormai scavallato gli 80 e sulla successione pesano le affermazioni di Sua Santità su una possibile non reincarnazione, Pechino sta promuovendo in ogni modo una figura con cui rimpiazzare il vecchio leader: il 26enne Gyaltsen Norbu, Panchen Lama (seconda carica tibetana funzionale alla nomina del Dalai Lama), insediato dal governo cinese negli anni 90 in sostituzione al prescelto dal Dalai Lama, un bambino di 6 anni fatto sparire dai servizi cinesi e diventato il prigioniero politico più giovane del mondo.
Quando nell’estate del 2011 Pechino annunciò la visita di Gyaincain Norbu a Labrang, nella provincia occidentale del Gansu, Xiahe, la cittadina in cui sorge il celebre complesso monastico, si dovette dotare di oltre 1000 agenti di polizia per tentare di sgonfiare il malumore scaturito tra la popolazione locale alla notizia dell’imminente arrivo di quella che i tibetani considerano una spia cinese nella gerarchia del buddhismo lamaista. Da allora le apparizioni pubbliche del giovane Panchen Lama, numero due nell’organigramma tibetano, sono diventate più frequenti. Dalla chiacchierata missioni a Hong Kong del 2012 (la prima oltremare) fino alla comparsa dello scorso luglio, quando il ventiseienne ha impartito l’iniziazione del kalachakra presso il monastero di Tashilhunpo, nella prefettura di Xigaze, in Tibet; prima volta in 50 anni che il più grande rituale buddhista è stato celebrato nella regione autonoma cinese anziché in India, sede del governo tibetano in esilio dalla rivolta di Lhasa contro l’occupazione comunista (1959).

Sfoggiando toni idilliaci, la stampa ufficiale racconta che «più di 100.000 persone hanno partecipato al rito, tra cui 100 lama e 5.000 monaci e monache. Dopo l’acquazzone notturno e una pioggerellina intermittente, il prato vicino al Nuovo Palazzo del Panchen Lama era diventato fangoso e scivoloso. Eppure, a mezzogiorno la gente è accorsa sul posto per ascoltare le istruzioni pubbliche e le iniziazioni in programma».

Le minacce di una possibile non reincarnazione pronunciate negli ultimi anni dal XIV Dalai Lama (al secolo Tenzin Gyatso) hanno messo in moto la macchina della propaganda di regime. Pechino è in grande ambasce per trovare un possibile sostituto all’ottuagenario leader religioso, che dal subcontinente indiano esercita ancora un notevole ascendente sulla comunità tibetana. Senza giri di parole il Gobal Times, spin-off dell’ufficialissimo People’s Daily, recentemente spiegava che «un Panchen Lama sempre più attivo aiuterà a mitigare l’influenza del Dalai Lama». Ma i trucchi impiegati dalla leadership comunista non sembrano avere grande presa sul popolo tibetano che dallo smembramento del Tibet storico risiede, oltre che nella regione autonoma, prevalentemente nelle province di Sichuan, Gansu e Yunnan.

Una «vergogna politica». Così da Dharamsala (500 chilometri da Delhi) la cerchia di Tenzin Gyatso ha bollato la pomposa celebrazione del kalachakra, accusando Pechino di aver cooptato la partecipazione locale a suon di minacce. L’aggettivo "politico» è pertinente, nonostante il Dalai Lama abbia rinunciato a qualsiasi «potere terreno» diversi anni fa. In gioco c’è infatti il controllo su una delle regione più ricche di materie prime dell’ex Celeste Impero. Per il popolo tibetano il regime cinese agisce da colonizzatore: porta sviluppo economico ma azzera le tradizioni culturali. Per la leadership di Xi Jinping, invece, Sua Santità è un «separatista» prezzolato dall’Occidente e il vero regista della lunga scia di autoimmolazioni in corso sull’altopiano tibetano dal 2009.

Riuscire a manovrare le reincarnazioni del Dalai Lama è da sempre un cruccio del governo cinese. Ancora prima che nel 2007 il regime comunista si arrogasse il diritto di nominare i futuri «Buddha viventi» con l’ordinanza N°5, l’imperatore Qianlong nel 1972 emise un editto volto a rendere il sorteggio dell’«urna d’oro» l’unico metodo corretto per selezionare (tra una rosa di candidati approvati dalle autorità) i successori tanto del Dalai Lama quanto del Panchen Lama. Di fatto tale «lotteria» è stata utilizzata soltanto per la nomina dell’XI Dalai Lama e in tempi più recenti, guarda un po’, proprio per investire il nostro Gyaincain Norbu del titolo di XI Panchen Lama.

Era il novembre 1995. Appena otto mesi prima, la scelta del comitato di ricerca presieduto dall’abate Chadrel Rinpoche (con l’appoggio di Tenzin Gyatso) era caduta su Choekyi Nyima, un bambino di appena sei anni, originario della contea tibetana di Lhari. La decisione non piacque a Pechino che, arrestato per tradimento l’abate, fece sparire l’infante e famiglia. Di lui si sono perse le tracce. Nel corso degli anni voci di un prematuro decesso sono state smentite dai rari dispacci ufficiali. Gli ultimi aggiornamenti risalgono allo scorso anno, quando i media di Stato hanno dichiarato che il ragazzo sta bene, «conduce una vita normale e non vuole essere disturbato».

Mentre l’oblio avviluppa le sorti del «più giovane prigioniero politico del mondo», la grancassa mediatica si affretta a consacrare la posizione di Gyaincain Norbu. Le credenziali ne attestano la fedeltà al regime: figlio di membri del Partito comunista, dichiaratamente sostenitore della «liberazione pacifica» del Tibet a opera dell’Esercito popolare di Liberazione, nonché delegato della Conferenza politica consultiva del popolo, una delle massime istituzioni cinesi. Quanto basterebbe a farne un leader ideale alla morte di Tenzin Gyatso, devono pensare a Zhongnanhai, il Cremlino cinese. La liturgia lamaista d’altronde prevede che sia proprio il Panchen Lama ad assurgere al vertice della gerarchia tibetana in attesa che venga individuata la reincarnazione del Dalai Lama.

Al momento dell’istituzione del suo rango nel XV secolo, il «Grande Erudito» (ovvero il Panchen Lama) si unì all’"Oceano di Saggezza» (il Dalai Lama) in un profondo legame di stima e collaborazione, tanto che in Tibet si diceva che i due, entrambi appartenenti alla setta dei Gelugpa (i Berretti Gialli), fossero uniti «come il sole e la luna». Questo forte vincolo si fondava su due principi: il primo verteva sull’impegno di entrambi a ricercare la reincarnazione dell’altro, come avvenuto per il riconoscimento di Tenzin Gyatso da parte del IX Panchen Lama, e di rimando per la nomina del X Panchen Lama da parte di Sua Santità. Il secondo principio invece si basava sul reciproco sostegno e sull’insegnamento dei rituali più profondi.

Considerando le pericolose affermazioni del Dalai Lama – che ha più volte ventilato la possibilità di non reincarnasi, reincarnarsi in una donna e in ogni caso di farlo al di fuori della Grande Muraglia – non stupisce il pressing esercitato dal Partito-Stato, ufficialmente ateo ma molto attento alla sfera spirituale quando arriva a lambire l’integrità territoriale del Paese. In questo clima di incertezza "quel che fa Pechino è in sostanza proporsi come vero custode delle tradizioni buddhista, costringendo alcuni lama a fungere da proxy», ci spiega Robbie Barnett, direttore del Modern Tibet Studies Program presso la Columbia University. La strategia funziona? Sembrerebbe proprio di no.

Secondo fonti della diaspora tibetana, le precedenti visite di Gyaincain Norbu a Tashilhunpo sono state accolte con freddezza dalla comunità monastica locale. Gli antecedenti storici confermano gli scarsi successi inanellati dal regime nel "Game of Thrones» lamaista. Tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, tutte e tre le principali cariche del buddhismo tibetano – ovvero il Dalai Lama e le precedenti reincarnazioni dei Panchen Lama e del Karmapa (il numero tre) – hanno inizialmente intrapreso la via della collaborazione, accettando di ricoprire persino incarichi governativi, per infine abbracciare la dissidenza: dopo il fallimentare accordo dei 17 punti, Tenzin Gyatso è fuggito in India nel 1959, seguito quarant’anni dopo dal Karmapa, mentre il X Panchen Lama, divenuto al tempo l’unico leader spirituale ancora nella regione autonoma, ha finito per rompere l’iniziale posizione filocinese autografando una petizione di 70mila caratteri contro i soprusi perpetrati dal regime indirizzata nel 1962 all’allora premier Zhou Enlai. Due anni più tardi è stato rinchiuso nella prigione di Qincheng, il carcere di massima sicurezza alla periferia nordovest di Pechino. Rilasciato nel ’77 e messo ai domiciliari, Choekyi Gyaltsen ha passato gli ultimi anni della sua vita da laico. Appeso l’abito zafferano a un chiodo si è sposato e ha avuto una figlia. E’ morto a 51 anni in condizioni sospette dopo aver pronunciato un discorso molto critico nei confronti del governo cinese. Le sue effigi sono tra le poche ben visibili nel tempio Jokhang di Lhasa, la sede principale della ramo Gelugpa e sancta sanctorum per tutti i pellegrini buddhisti tibetani. Del Panchen Lama prescelto da Pechino, invece, nemmeno l’ombra.

Intanto, voci contrastanti gettano dubbi sulla tenuta granitica della ventennale lealtà di Gyaincain Norbu, da quando lo scorso anno il ragazzo ha pubblicamente criticato la politica delle «quote» con cui il governo cinese ha eroso la presenza di monaci e monache nella regione autonoma del Tibet – oggi appena 46mila, meno della metà rispetto agli anni ’50. Una bella gatta da pelare per Pechino, ma non sufficiente a decretare definitivamente il fallimento della tattica messa in campo finora.

«Sarebbe infatti fuorviante interpretare gli artifici del regime esclusivamente nell’ottica di un assoggettamento della popolazione tibetana», avverte l’accademico, «se infatti non funzionano con i 6 milioni di tibetani o con l’Occidente, funzionano molto bene con gli 1,4 miliardi di cinesi, piuttosto inclini a bersi la versione sul Tibet propinata dalle autorità cinesi in mancanza di un’informazione libera. Da questo punto di vista la questione credo vada inquadrata piuttosto in un discorso di rafforzamento della legittimità interna, dove il vero interlocutore della strategia di Pechino è il pubblico domestico».

[Scritto per The Towner; Foto credit: Alessandra Colarizi]